L'eremo prima dei lavori
L'eremo con i muri e l'acquidoccio
I lavori iniziati il 22 Maggio 2023, che sono terminati il 21 Maggio 2024, ci hanno impegnato per 141 giornate lavorative per un totale di 2193 ore lavorative con quattro operatori sul cantiere sull’arco di 12 mesi.
Un breve documentario realizzato da Giancarla Serra sui lavori che sono stati effettuati a protezione e supporto dell'eremo.
WEBINAR dell'8 marzo. Un caso studio e lavoro sulle qualità idrogeologiche dei paesaggi terrazzati a secco
Un breve video a lavori appena cominciati.
Parte Prima – 2022/2023
Storia della nascita, pianificazione e sviluppo
del Progetto AQUAE
Andrea Scotti
Premessa
Le seguenti note sono finalizzate a dare un quadro completo della genesi e sviluppo del Progetto Aquae che ebbe inizio nel febbraio del 2022 con una proposta, fatta da Giancarla Serra, responsabile dell’impresa sociale Fossello - che gestisce le attività correnti dell’Eremo al Collettivo Milarepa. Pertanto qui di seguito tenteremo di ricostruire la cronistoria delle frenetiche attività che ci hanno portato, nonostante, come vedremo, le molte difficoltà amministrative, a far partire uno dei progetti più complessi
realizzati in muratura a secco all’interno del Parco di Portofino. L’obbiettivo insomma è di raccogliere tutta la documentazione che è stata prodotta e assemblarla nella forma di una specie di diario di bordo in maniera tale da mostrare la complessità del progetto e degli attori che vi hanno partecipato, ma al contempo la sua rilevanza per il territorio sul quale si sono svolte, e si svolgeranno tutte le attività.
1. L’idea, le proiezioni e la progettazione
L’idea del progetto, che inizialmente avrebbe dovuto coinvolgere la totalità dei muri dell’eremo, dopo aver fatto il primo sopraluogo, ci venne presentato in una bozza. La bozza era la seguente:
Facendo il primo calcolo approssimativo del numero di metri quadrati, venne fuori la considerevole cifra di 267 mq con un altezza media dei muri di 1.20 m se si esclude il muro immediatamente posteriore all’edificio che era una scala con altezza 4.50 m. Come si vede dalla bozza i lavori avrebbero coinvolto oltre che la parte montana (A) anche la valle (B) e il rio (C) dell’eremo.
Ora come si vede dalla foto di presentazione l’ area montana aveva oramai soltanto la traccia dei muri una volta esistenti e che costituivano il terrazzamento più produttivo dell’eremo. Ma anche i muri che si trovano alla base dell’eremo, nella parte superiore dell’areale, avrebbero avuto bisogno di un consistente carico di pietre aggiuntive per essere ristrutturati a regola d’arte. Di fronte al primo computo ci siamo resi conto che avremmo dovuto movimentare un volume di pietre significativo ossia circa 270 mc che approssimativamente sono 459 tonnellate di pietre. La domanda, e non di poco conto, fu: ”Come le portiamo su fin lì cosí tante pietre?”. Fu questo elemento a mettere in evidenza la difficoltà infrastrutturale del progetto e specie i suoi costi.
Come abbiamo poi risolto questa questione lo vedremo più avanti una volta definito il progetto. Il problema dell’approvvigionamento pietre, come si vede dalla seguente cartina, fu l’orografia del terreno che rendeva impossibile il trasporto via terra.
A questo punto siamo all’inizio metà di marzo del 2022. Quindi, noi del Collettivo Milarepa, veniamo incaricati di stilare un preventivo per la realizzazione del ripristino dei muri dei vari settori. In realtà alcune bozze erano già state fatte circolare già alla fine di febbraio del 2022. Finalmente riusciamo a concordarci sulle varie voci di capitolato e stendiamo così il preventivo definitivo, o meglio, quello che noi ingenuamente credevamo sarebbe potuto essere il preventivo definitivo. A questo punto, ossia dal 3 di marzo 2022 sino 29 luglio di quell’anno c’è un silenzio stampa che convince i giovani del Collettivo all’idea che di questo progetto non si farà nulla.
Quel giorno – ossia il 29 luglio - riceviamo una mail dalla Giancarla Serra, che ci informa sul calendario del bando pubblico del PNRR relativo alla ristrutturazione dei muri. Dunque, si parte, però, c’è una svolta nel progetto. Deve essere ridotto, e quindi va scelto il settore idrogeologicamente più rilevante tra quelli selezionati. È chiaro che il settore montano (A) è il versante più debole del monte e per altro sovrasta l’eremo in maniera minacciosa (Pg3b), come si può vedere nella seguente mappa dell’autorità di bacino:
A questo punto, il progetto che inizialmente era finalizzato al solo ripristino delle opere murarie dei terrazzamenti, diventa un progetto diverso. La nuova finalità della realizzazione dei muri a secco è quella di mantenere,
catturare e regimentare le acque del versante montano e convogliare le eccedenze nella vecchia cisterna. Saltano quindi i settori (B) e (C) e anche nel settore (A) vengono ridotti i muri da ripristinare, viene però introdotta la costruzione di un sistema di canalizzazione delle acque che, come vedremo, renderà il progetto, molto più complesso. Per far ciò era necessario però avere sia i dati di un indagine topografica che di un indagine idrogeologica. Il rilievo topografico si conclude il 20 di settembre del 2022 con i seguenti risultati:
Il terreno della sezione (A), come si vede, è stato suddiviso in quattro sezioni e per ogni singola sezione ne è stato calcolato l’acclivio in questo modo da poter intervenire puntualmente sullo scavo dei singoli muri e studiare la pendenza dell’acquidoccio. Qui di seguito vediamo le pendenze delle varie sezioni:
Vediamo qui che questa sezione tra il punto più basso e quello più alto c’è un diferrenziale di 17 m che implica, su una distanza approssimativa di 22 m tra p 1 / p 2 1 c’è un acclivio di 32°. Questa era la zona in cui si sarebbe dovuto ricostruire la scala di accesso ai terreni. Però, proprio durante la stabilizzazione del progetto, nel settembre del 2022, questa sezione del settore (A) è stato rimosso dagli obbiettivi. Infatti, il muro di quella scala è di quasi 4.5 m di altezza e quindi avrebbe aumentato in maniera consistente la quantità di pietre necessarie per poter realizzare l’opera.
Qui il differenziale cambia in maniera rilevante poiché è di 7,6 m – quindi la differenza tra la sez. 1 e 2 è di 10 m – e infatti il terreno si ferma poco sotto la grondaia dell’edificio, e ciò implica che qui su una distanza tra p 1 / p 2 di 18 m l’acclivio è invece di 22.8°.
Qui sopra, sez. 3, il differenziale è di 10,5 m e ciò implica che qui, su una distanza tra p 1 / p 2 di 20 m, l’acclivio è invece di 26.5°.
Qui sopra, sez. 4, il differenziale è di 6 m e ciò implica che qui, su una distanza tra p 1 / p 2 di 20 m, l’acclivio è invece di 16,7°. Questa è la sezione nella quale verrà realizzato l’acquidoccio il quale dovrà rompere – come vedremo negli schizzi – la caduta dell’acqua, oggi libera. Inoltre, come possiamo vedere nella cartina dell’andamento superficiale delle acque, la linea di caduta delle precipitazioni passa proprio sulla parte destra (cioè a monte) della sezione stessa.
Vediamo qui di seguito, sia la visione complessiva del movimento dell’acque nella valle di Niasca, che la visione del dettaglio relativo alla sezione 4.
Ora, trascrivere tutti questi dati e mettere in fila tutti i grafici e le piante degli studi topografici e idrogeologici potrebbe sembrare inutile e noioso ai fini della nostra cronistoria. Invece, furono proprio questi dati, che nel settembre del
2022 e poi ancora nella definizione finale del progetto dell’ottobre di quell’anno, ci consentirono di dare una proiezione realistica di quanto alti dovessero essere i muri e pertanto quale inclinazione percentuale dovesse avere ciascuno di essi in relazione alla pendenza di quell’acclivio che avrebbero dovuto attraversare ortogonalmente su quel versante. In tal modo fummo in grado di calcolare anche la profondità lineare di ogni singolo muro da cui dedurre la volumetria complessiva delle pi etre. Infatti, trasformando i valori in gradi che ci ha dato l’analisi topografica, in valori percentuali – ossia come siamo soliti leggere le pendenze – ebbene ci siamo resi conto che avremmo dovuto costruire su pendenze ben più marcate di quelle alle quali eravamo usi nel resto del levante ligure. Infatti i valori in percentuale sono i seguenti:
sez. val. ° val. %
1 32 62
2 22.8 42
3 26.5 49
4 16.7 30
La scoperta di questi dati ha implicato una sostanziale variazione della profondita lineare che pensavamo essere di 0.70 m, e dell’ altezza dei muri, la cui media era stata stabilita all’incirca tra 1 m e 1.20 m diventò da una massima di 1.80 m alla minima di 1.50 m e quindi la profondità lineare sarebbe dovuta essere di 1 m. Questo implicava un ricalcolo della volumetria e quindi del tonnellaggio delle pietre che dall’ originale 160 t passò a quasi 200 t.
Il 29 di settembre del 2022, quando finalmente tutti i dati furono esaminati e in maniera più o meno precisa si era capito quale sarebbe stato il tetto massimo di spesa, comincia la faticosa riedizione del progetto dei muri e della regimentazione delle acque. Visto che noi del Collettivo, nel corso della nostra decennale attività avevamo fatto ogni tipo di manufatto, ci mancava però la
realizzazione di un canale o meglio di una serie di canali che da un lato seguissero l’andamento dei muri e dall’altro tagliassero i muri in maniera perpendicolare. Quindi, bisognava fare un indagine sul territorio per vedere come in certe zone avessero realizzato in tempi remoti questo tipo di opere, visto che nonostante tutte le nostre ricerche d’archivio e nelle biblioteche, non è stato possibile trovare alcun documento né opera tecnica che né suggerisse il metodo di costruzione. Ergo, abbiamo proceduto, sulla base delle osservazioni fatte nel territorio montano del levante ligure dove abbiamo trovato alcuni esempi di regimentazione delle acque che sarebbero potuti essere utili per le finalità del nostro progetto.
Siamo oramai alla fine del mese di settembre 2022 e diventa impellente avere un modello costruttivo delle varie fasi dell’opera. Nel corso delle prime settimane di ottobre di quell’anno abbiamo realizzato i primi schizzi per definire la struttura e il metodo di costruzione del sistema di gestione delle acque. Ecco qui di seguito gli schizzi che abbiamo realizzato:
In aggiunta a questi schizzi era necessario far capire come avremmo recuperato l’ acqua derenata dei muri che stavano sulla parte a valle del versante costruito. Poiché una versione assonometrica era troppo complessa e di difficile lettura, siamo stati costretti a fare una versione in pianta astratta per spiegare come avremmo realizzato una simile opera.
Ecco lo schizzo dell’andamento delle canalette per ogni muro:
Ora, riuscire a convincere tutti che si potesse far risalire l’acqua dalla valle al monte non fu esattamente facile. Era, come si dice, contro intutivo. Tuttavia, questa pratica è esistita per molti secoli nella Liguria dell’entroterra del levante ed è stata praticata anche nel ponente, come sono ad esempio le località montane della valle Argentina ossia le montagne a ridosso di Imperia. L’idea,non consiste di raccogliere tutta l’acqua, che al contrario deve rimanere nel suolo quanto più possibile, bensì di raccogliere le eccedenze, le quali se non gestite erodono le piane e quindi trasportano a valle la terra coltivabile di superficie.
La cosa più problematica fu quella di spiegare che le fondazioni sarebbero dovute rimanere piatte – pena il rischio di basculazione delle stesse - ossia che dal punto a monte al punto a valle della fondazione del muro la quota doveva essere la stessa – ovviamente scavando così una fondazione più profonda tanto più si risaliva la valle – e che data quella quota si sarebbe dovuto fare un scavo parallelo al piede romano del muro per creare una grondaia la cui quota a valle, in questo caso, fosse più alta di quella a monte. In tal modo tutta l’acqua in eccedenza, che il muro e la terra non sarebbero state in grado di assorbire, sarebbe stata canalizzata – e al contempo perduta a stillicidio sulla piana – nell’acquidoccio reindirizzandola così verso la cisterna. Le più versioni che furono redatte nel corso del mese di settembre portarono a questa versione finale solo nelle prime due settimane dell’ottobre del 2022. Qualche altro schizzo fu aggiunto più avanti quando finalmente mettemmo
le mani sulla terra. Ma questo lo racconteremo nel terzo capitolo.
2. L’amministrazione
Parallelamente a tutta la definizione operativa del progetto che come abbiamo visto è durata tutto il 2022, vi era un altro tormentato capitolo del progetto che, come vedremo ogni tanto emergeva, per poi scomparire. Questo capitolo era appunto quello dell’amministrazione della burocrazia. A gestire le impennate di follia, di cui l’amministrazione pubblica è capace, fu la nostra Minerva, protettrice degli artigiani, Giancarla Serra, la quale naturalmente, visto lo sforzo di coordinamento che stava facendo, esigeva dal proprio esercito una fedeltà cieca. Ma andiamo con ordine. Nel 2022, prima di chiamare noi del Collettivo, la
Giancarla aveva giá contattato una serie di professionisti nella prospettiva di avere un quadro di riferimento gestionale e scientifico di un certo spessore. Tra questi, quelli che hanno partecipato con fervore al farsi delle carte, furono l’architetto Antonio Maruffi e il geometra Giovanni Carlini, i quali hanno poi firmato l’assestamento del piano generale preliminare del progetto di cui i nostri muri sono, per quanto rilevante, solo una parte. Quindi, la creazione di questo network era antecedente il febbraio del 2022 e andò a consolidarsi nel corso dell’anno, nel dibattito intorno alla definizione delle voci di capitolato del progetto, in altre parole quanto ogni singola parte del progetto sarebbe costata. Quest’ultima attività che come risultato finale porta a un documento chiamato Computo Metrico Esecutivo, abbreviato CME, o molto spesso CM, come lo chiameremo noi qui di seguito, ebbe inizio 11 di dicembre del 2022 ed andò avanti sino al 3 marzo del 2023. In realtà prima di quella data era già stata fatta una bozza nella quale però andava riversato il contenuto del nostro preventivo. Fu precisamente questa collisione che rese la realizzazione del CM più complessa. Infatti, mentre noi, nel nostro preventivo, esprimevamo i valori di ogni singola parte del progetto, in una forma descrittiva seguendo le nostre voci di capitolato, il modello di CM scelto dai professionisti usava come riferimento un capitolato tradizionalmente edile. È qui lo scontro fu frontale. Infatti, il listino prezzi di riferimento scelto era quello prodotto dalla Camera del Commercio della Liguria, mentre il nostro era quello concordato dall’ITLA Italia, e quindi c’era un disallineamento completo. Ossia il quadro delle spese andava ripensato completamente tenendo presente che la commissione del PNRR voleva un CME e non un preventivo da artigiani, cioè bisognava seguire un dato metodo di espressione dei costi che era strutturato come segue:
Ora, di primo acchito non sembra gran che complesso definire i lavori con questo metodo di classificazione. In realtà, è proprio nella voce più generica, ossia “Indicazione dei Lavori … “, la trappola. In quella voce infatti, non solo va dato un detteglio della singola azione in relazione all’opera, ma ne va scelta anche l’unità di misura sulla base della quale identificare la “Quantità” e quindi definire il prezzo “Unitario” per quella singola parte dell’opera e giungere così al suo totale parziale.
Ecco, arrivare al totale parziale non fu così semplice, anche perché, e siamo a dicembre del 2022, non era ancora chiaro quale sarebbe stato il tetto massimo di spesa. La storia dei sostenitori pubblici e privati del progetto, e come Minerva navigasse nel torrente tumultuoso e infido che portava dalle banche alle segreterie dei comuni limitrofi e dell’Ente Parco di Portofino, l’abbiamo vissuta solo indirettamente e a spizzichi e bocconi, ossia quando la Giancarla ci dava il verde andava tutto bene, quando faceva dietro front o chiedeva tagli bisognava tornare sul CM.
Un problema ulteriore derivava dal fatto che in quella voce generica, “Indicazione dei Lavori … “, la definizione di un manufatto in pietra a secco e dei suoi dettagli costruttivi, doveva essere fatto da qualcuno che avesse esperienza sul campo, e quel qualcuno eravamo appunto noi. Quindi, una volta che il Carlini concluse la sua prima versione del CM, comiciò il ping-pong delle versioni di aggiornamento del medesimo. Immediatamente dopo le feste di Natale del 2022, alla fine del gennaio 2023, il giorno 29, viene distribuita quella che per molte volte venne chiamata impropriamente versione finale del CM. In realtà, le versioni furono molte, e molte le riunioni che abbiamo dovuto fare. Tale fu il tumulto che, se si dovesse esportare in un documento le chiamate e i messaggi di WhatApp del gruppo operativo, potremmo riempire molto di più di una dozzina di pagine. Non lo faremo. In breve, il CM viene prodotto nuovamente il 14 febbraio, per essere rivisto nuovamente il 17 di quel mese, subendo ancora variazioni significative il 24 e il 25, e finalmente diventando ufficiale solo il 3 di marzo del 2023. Ce l’abbiamo fatta !!! No! Purtroppo realizzare un progetto di questo genere, in un paese in via di sviluppo come il nostro, e in una regione come la Liguria legata ai clan celtici delle origini, includeva anche altri calvari burocratici lungo i quali, anche questa volta, siamo stati saldamente guidati dalla nostra Minerva. Ebbene, marzo 2023 stava scorrendo rapidamente e il termine ultimo di consegna del progetto e inizio lavori era il 30 giugno, pena la revoca del finanziamento. Dunque bisognava definire i ruoli delle singole persone e delle ditte coinvolte nelle varie attività. In apparenza una cosa facile visto che tutti quelli che avevano partecipato alla definizione del CM erano identificabili per il loro ruolo e funzione nel progetto. No, bisognava produrre documenti di cui gran parte di noi non aveva neppure sentito parlare, documenti questi il cui nome sembrava indicare un malanno o una turbe grave. Si pensava che avendo una partita IVA e un codice fiscale, una carta di identità sarebbe bastato per stilare un contratto di affidamento ad ogni artigiano decidendo la sua quota parte nel complesso del progetto. No, era necessario produrre anche un altro e più complesso documento, il DURC – Documento Unico di Regolarità Contributiva – il quale poteva essere prodotto solo avendo uno SPID – Sistema Pubblico di Identità Digitale – il quale, a sua volta, deve essere richiesto alle Poste Italiane dopo un previo appuntamento concordato on-line presso l’ufficio più prossimo alla propria residenza. Ossia un incubo. Nel contempo bisognava anche definire un calendario dei lavori con il sistema chiamato GANTT, il quale porta con sé necessariamente il PERT - Project Evaluation Review Technique – da cui si deriva o con il quale si produce il CPM (Critical Path Method), il tutto per definire
i ruoli e i tempi proiettivi dei singoli attori nel progetto. Ecco il gioco delle tre carte è ri-iniziato: dopo il CM, il secondo round.
Le voci, delle varie fonti istituzionali, relative alla necessità di tutta questa documentazione erano ovviamente contraddittorie e i tempi per produrre il tutto sembravano davvero superare quelli che avevamo a disposizione. Comunque, tra il 4 di marzo 2023 e il 19 di quel mese riuscimmo a produrre almeno il GANTT, l’ennesimo dall’inizio della progettazione, e speravamo anche fosse
l’ultimo. Ma rimanevano scoperti tutti gli altri doc. In quel mese, noi eravamo impegnati, sulle colline di Genova, in un cantiere con alcune difficoltà particolari e stavamo sudando per finire un muro che nel farsi dell’opera era diventato mostruosamente grande. Era il 20 di marzo, pausa pranzo, all’ombra, nel grande giardino della villa Parodi sulle alture di Granarolo, sotto il mandorlo con le prime zanzare della primavera incipiente, quando suona il telefono. Viva voce, si sente la Minerva che ci chiama ad accolita per andare a sentire l’opinione di un guru della pubblica amministrazione specializzato in appalti pubblici, e quest’appuntamento era per il giorno dopo, ossia il 21 marzo. Alla titubanza della nostra risposta, visto anche gli impegni che avevamo, la voce di Minerva da normale si fece pian piano metallica, e il suggerimento di vedersi a Genova il giorno dopo, diventò d’ un tratto un ordine secco al quale, per fortuna, tutti risposero positivamente.
Il mattino seguente, appunto il martedi 21 di marzo del 2023, in una giornata scintillante di primavera e con un bel vento di libeccio che pettinava gli olmi di tutto l’areale pubblico sotto un cielo turchese cristallino ferito solo dalle ruggini striate dei nembi atlantici, tutto l’esercito, ben ordinato, si ritrova nella grande piazza davanti alla stazione di Genova Brignole.
Minerva in testa, al passo di rocciatrice, ci guida attraverso la zona pedonale sino alla centrale via XX Settembre nei cui sountuosi palazzi, da qualche parte, avremmo dovuto trovare l’entrata al golgota dell’impero kafkiano nel cui vortice eravamo caduti. Prendiamo, dunque, un vicolo laterale e finalmente entriamo in un edificio la cui portineria era lustra come una gioielleria e le cui scale specchiavano chi le risaliva sin nei minimi dettagli. Saliamo, e finalmente ci aprono la porta di uno studio con decine di uffici popolati da gente tutta indaffarata: un esercito femminile e maschile di mezze maniche d’altura. Da questa ressa emerge un signore canuto di media statura con uno sguardo serio con sottobraccio un faldone e delle carte in mano che ci guida sino alla sala dove da li a poco, con lectio magistralis – bisogna dire con grande sintesi – ci avrebbe spiegato tutto. Dopo qualche attimo di silenzio, e noi seduti al banco come bravi scolari con carta e penna in mano, in cui scartabellava il nostro incartamento, si
schiarisce la voce e come d’incanto dal mare in tempesta degli innumerevoli volumi del codice civile italiano fa emergere una legge la quale ci esenta dalle catene infinite a cui sembravamo essere ancorati. Insomma, bastava una dichiarazione in carta libera per declinare la necessità di questi dannati documenti. Una liberazione, per noi, e per Minerva che vedeva così allegerito il
suo compito di gestire gli incarichi. Tutti contenti dell’esito della riunione, e specie del fatto che fu breve e indolore. Andiamo verso casa. Scendendo dall’auto, come se avesse ancora un ultimo desiderio, la Giancarla, ci dice: “Adesso pensate alle pietre !!” Appunto: pensate !! Ecco, quest’idea rimase per un po’, come si diceva durante il servizio militare, in infermeria, ma sarebbe poi ermersa gioco forza rapidamente poche settimane dopo. Il marzo 2023 passa senza grosse scosse apparenti.
Dovevamo chiudere due o tre cantieri tra Genova, Rapallo e Chiavari e quindi fummo concentrati sul nostro lavoro. Certo, che da quel 21 di marzo sino alla metà di aprile del 2023 potemmo svolgere il nostro lavoro con il giusto ritmo. Ma la calma si interrompe il 21 di aprile e arriva la chiamata alle armi. Bisogna produrre tutta la documentazione, e specie bisogna pensare alla amministrazione delle pietre, che appunto non sarebbero salite da sole all’Eremo, come nelle favole di Andresen, ma sarebbero dovute essere trasportate lá da un elicottero i cui tempi e modi dovevano essere appunto essere pianificati. Dunque, tra il 21 di
Aprile e il 28 di giugno parte la definizione degli incarichi e al contempo la pianificazione del cantiere. Ossia, pian piano diventava vero che avremmo dovuto mettere, alla fine, le mani a terra.
Durante il mese di maggio emerge che i voli degli elicotteri sopra il monte di Portofino devono essere interrotti dal 15 giugno al 15 settembre. Era quindi necessario avere almeno un carico di pietre per realizzare durante l’estate il
primo esempio del progetto. Noi avevamo avuto buoni rapporti con una cava che è nascosta nelle alture di Castiglione Chiavarese in alta val Petronio. Pertanto, il 22 di maggio 2023 di buon ora, fiduciosi, partiamo e raggiungiamo il posto con l’idea che quelli della cava ci aiutassero a trovare, spaccare, e impacchettare le pietre. Ecco nulla di tutto ciò accadde. L’unico aiuto fu quello di appiattire un grande cumulo cosicchè noi potessimo – saltando tra le pietre inutilizzabili - scieglierle ed a mano portarle verso i sacchi da riempire. Ora, questo posto era un piazzale circondato a monte da cumuli alti trenta metri di pietrisco che veniva prodotto in loco e a valle da diversi cumuli di pietre gigantesche assolutamente inutilizzabili. Ebbene dalla distruzione di uno di questi cumuli vennero fuori le pietre che potevamo usare. Quando il sole e l’aria calda – ed era oramai metà maggio inoltrato – arrivarono sul piazzale tutto cominciò ad arroventarsi che anche il solo respirare era una fatica immane. Ecco in queste condizioni ottimali usare la mazza da quattro chili per rompere pietre tutto il giorno fu, per così dire, un esercizio spirituale di non poco conto.
Non solo scoprimmo che non avremmo avuto alcun sostegno nel procacciarci le pietre, ma che questi della cava Lusardi non ci avrebbero neanche fornito le tonnellate di cui avremmo avuto bisogno. Quindi ci accontentammo di impacchettare 11 sacchi da 1 t l’uno e tronammo a valle. Queste pietre sarebbero bastate forse per un muro ma non certo per fare tutta l’opera.
Il 30 di maggio l’appuntamento con il trasportatore della Lusardi era per le 7.30. Alle 6.40 suona il telefono e l’autista ci avverte che lui era già per strada.
Bisognava risalire il monte di Portofino nella direzione dell’albergo Kulm ed è`su quella strada che incrociammo il trasporatore che ci raccolse così da raggiungere il grande piazzale da cui far volar via le pietre. Ma la caccia alle pietre era tutt’altro che terminata.
Passò l’estate, o meglio solo una parte dell’estate, in cui potemmo riposare e riordinare le idee su come procedere per realizzare il progetto. Infatti, fummo costretti a ritornare operativi nella seconda metà di agosto per realizzare un opera pubblica nel comune di Varese Ligure. Il 28 di agosto, una giornata in cui le temperature salirono a quasi quaranta gradi decidemmo di iniziare i lavori nella valle di Niasca che estendendosi sulla linea nord-sud ha il vantaggio che nel primo pomeriggio il sole si nasconde dietro le alture del monte di Portofino, ma anche lo svantaggio che essendo una valle a fatta a V raccoglie la calura mattutina e la trattiene con passione sino alla fine del giorno. In accordo con con tutta la banda alla mattina risalimmo il monte freschi
come rose pensando di realizzare il primo scavo come se fosse un gioco con la sabbia. Invece, a calcoli fatti, scoprimmo che avremmo dovuto movimentare una enorme quantità di terra la cui superfice sembrava lasciare intendere che si potesse muovere con facilità ma in realtà dopo pochi centimetri di piccone divenne chiaro che quel terreno era duro come la roccia e che avremmo dovuto sputare sangue per fare lo scavo che avevamo in mente. E così fu !
Ma l’ammistrazione del progetto, ossia le pietre, non era ancora terminata, perciò Minerva ci chiama il 3 di settembre con piglio napoleonico per ricordarci che avremmo dovuto trovare una soluzione. Eh si !! Soluzione non facile ma necessaria!! Quindi in una riunione d’emergenza decidiamo di esplorare le cave del più remoto posto del levante ligure civilizzato, si fa per dire, ossia la Val
Graveglia.
Era una mattina ventosa di settembre del 2023 con i soliti cumulo-nembi atlantici che da ovest arrivavano sin sull’orizzonte del Tigullio e noi, tutti stipati in un auto come studenti in gita partimmo per investigare se cave, più famose della Lusardi, avessero pietre, e non poche, per noi. Quindi, nel chiarore diamantino della mattina settembrina, Via !!
Lasciamo alle nostre spalle Lavagna e il blu del suo mare increspato per dirigerci verso quel mondo che non ha conosciuto sviluppo o alfabetizzazione contemporanea e che appunto porta l’infelice nome di entroterra Ligure. Valli glaciali con sezione a “V” che creano con il vento marino turbolenze locali non solo sulla superficie delle campagne ma crediamo anche negli animi e nelle menti desolate delle popolazioni che non sono riuscite a sfuggire al fango ed all’amaro destino delle comunità chiuse. Si, si!! Un solo cognome. Questa premessa, naturalmente, la possiamo fare solo perché, appunto, ci siamo avventurati sin là, e abbiamo sperimentato di persona cosa voglia dire essere nati e cresciuti a Frisolino.
Infatti, sulla strada che mena da Lavagna a San Salvatore, verso nord-est, la valle è ancora ampia, lo Sturla si getta nell’Entella, si raggiunge alla fine un vallone che da Graveglia - dove i fianchi della montagna si inerpicano stringedosi in egual misura alla percezione del mondo dei locali - porta prima a Conscenti e poi al comune di Ne. Ecco questo è il buongiorno: un comune che si chiama come la negazione in qualsiasi lingua nordica d’Europa. Superiamo Frisolino e ci avviciniamo alla cava più famosa della zona. Scendiamo in quattro dall’auto e ci avviamo verso quello che sarebbe dovuto essere un ufficio. Ossia un ex- container a cui avevano tagliato una porta e una finestra con una copertura di prelxiglass che nascondeva al suo interno il genio. Domandiamo se avessero la disponibilità di vendere le tonnellate di pietre di cui avevamo bisogno.
Risposta: “Eh nooo belin!! Le pietre le vendiamo solo ai nostri clienti!!”.
Ora viene normale chiedersi: essendo che voglio diventare tuo cliente, non è che mi vendi le pietre anche a me?? Ma questo ragionamento sfuggiva totalmente al nostro interlocutore e nel tentativo di ripetere la domanda abbiamo visto la finestrella in
plexiglass chiudersi lentamente. Non un saluto, nulla, solo la polvere bruciata nel vento e il rumore delle macchine frangipietra sopra le nostre teste.
In silenzio, certi che se non avessimo risolto il problema delle pietre Minerva ci avrebbe bruciato sui pali per illuminare la via all’eremo come Diocleziano i cristiani sulla via Aurelia, risaliamo in auto. Oramai è mezza mattina ed abbiamo un appuntamento con un tale Marchisio che, sempre sulla provinciale 26, superando la frazione di Piandifieno, possiede una cava alla fine della valle. Andiamo ! Anche un po’ spediti nella speranza di avere finalmente una soluzione.
Ora, risalendo la china della valle, piagata al suo centro da un incostante torrente di cui nessuno è stato in grado di raccontarne il nome, arriviamo in un punto in cui lo spazio si apre e dal lato sinistro si affacciano grandi macchinari e dal lato destro lo spazio straziato della montagna scavata come cerchi infernali danteschi. Il vento portava cosi tanta polvere che tutto il pioppeto cresciuto sul esiguo rio aveva sostituito le foglie con dei brandelli d’argento come se avessero voluto organizzare una grande festa di natale. Noi ci inoltrammo, anche questa volta verso quello che un tempo doveva essere stato l’uffico. Nessuna traccia di umani. Solo macchine che nel vallone laterale lavoravano pietre. Silenzo polvere e infine clangore meccanico. Nessuno in giro. Ecco, quando si dice l’accoglienza ligure!! D’un tratto arriva una specie di macchinone bianco da cui scende un uomo delle stesse dimensioni dell’auto. Capiamo subito che ciò che dirà sarà anche ciò che faremo. Questo signore non era né affabile né ostile, voleva semplicemente sapere cosa diavolo facevamo li a rovinare il suo tempo. Con passo veloce riprende l*auto e con un segno fermo e senza alcun suono ci indica di seguirlo. Noi ci rituffiamo nell’auto, tutti in silenzio. Marchiso davanti e noi dietro con la polvere negli occhi. Attraversiamo la provinciale e saliamo sull’ultimo e più alto cerchio dell’opera dantesca del Marchisio. Lui scendendo dall’auto e mettendosi sul ciglio dello scempio con il quale ha costruito il suo impero, ci guarda e dice:”Eh belin di quante prie avete bisogno!!”. Era chiaro che avevamo trovato il soggetto giusto. La questione era come gestirlo.
Ecco in questi momenti, visto che era già la seconda settimana di settembre del 2023 e da li a poco avremmo dovuto consegnare il primo terzo dell’opera, sei costretto a correre e appunto decidere d’un sol balzo: ”Signor Marchisio, la vede quella calca di pietre li sopra, che copre un terzo della montagna, ecco la compro!!”. A questa nostra proposta, il Marchisio si volta verso di noi e dice:” Vediamo le prie!!”. Ora nel voltarsi verso di noi il Marchisio aveva il sole sulle spalle e noi in quattro eravamo nella sua ombra. È chiaro che qui si discute ad armi impari. Tuttavia lo seguimmo e fu chiaro: compri oggi o perdi domani. Nessuna empatia, solo una mano come un badile sulla spalla e un sorriso caustico e basta. È vero, non avevamo chiesto il permesso alla Minerva. Ma adesso era compito suo e noi, almeno per il poco tempo che ci rimaneva potevamo tornare a dormire tranquilli…si fa per dire.
Tornammo tutti insieme verso la costa. Contenti? No !! Forse mancava ancora una cosa. Con le pietre del Marchisio, rompendole o faticando in quattro per metterle sul paramento, avremmo fatto sicuramete un opera stabile ma di certo non avremmo mai potuto costruire un canale: cioè a dire un opera ordinata capace di reggere la spinta delle acque piovane torrenziali in maniera tale da indirizzarne il flusso dove avremmo voluto noi. Per fare ciò sarebbe stato neccessario trovare una pietra particolare, cioè la pietra di Filiberti. Ora Filiberti non è una classe geologica bensi è una pietra venduta da questo tale, ma in realtà è un’arenaria che si chiama pietra di Carniglia o di Bedonia. Ciò voleva dire, che ancora una volta, avremmo dovuto spingerci più all’interno nelle corrugazioni montusose che dividono le cilviltà primitive della Liguria da quelle dell’Emilia Romagna per raggiungere con fatica le cave della valle del Taro.
Oramai siamo alla fine della terza settimana di settembre 2023 e sulla costa la temperatura non sembrava aver alcuna intenzione di scendere. No, il caldo furioso ci inseguiva senza sosta. E bisognava riuscire a dare una parola fine all’amministrazione delle pietre. Dove portale, stoccarle e specie trasportarle il più vicino possible al monte di Portofino. E bisogna ancora andare il val di Taro a prendere le Filiberti. Ecco, chi va ?? Il solito trio. Ne parleremo più avanti di questi tre.
Via!! Si parte per la ridente val di Taro che si raggiunge faticando di nuovo nello spingersi sino a dove lo Sturla diventa un fiume, a Borzonasca, eppoi salendo verso est sul passo del Bocco. Una volta scollinato, dall’alto vedi a perdita d’occhio una natura pregiatamente ordinata con i colori dell’autunno e campi liberi con le siepi tagliate che anche il vento di settembre non disordina. Ossia per un attimo hai quella sensazione che dopo l’ultima curva sul passo sei entrato in quello che avevi dimenticato essere il mondo civilizzato, appunto. E pacato da tanta bellezza scendi sulle curve della valle guardando le dolci colline dell’Emilia, con calma, seguendo le rumorose acque del Taro, per raggiungere infine una amena località chiamata Santa Maria appunto del Taro. Era il 25 di settembre 2023, e quella sera arrivammo a Santa Maria per esssere ospitati da amici che conducono una vita frugale sulle colline dei dintorni. L’indomani, di mattina presto raggiungemmo le piane di Carniglia dalla quale si inerpica una strada alpina che per un mezzo normale può risultare a rischio coppa dell’olio, ma che, a quanto pare, un triassiale con 20 tonnelate di pietre in groppa percorre come fosse la via di casa, e ciò spiega molto sul tipo di popolazione che ha colonizzato quella zona montana. Infatti non appena arrivati noi avremmo dovuto scieglire una certo numero di pietre speciali da una collina di detriti del taglio della pietra. La cava era percorsa da camion di dimensioni indescrivibili e non c’era nessuno a cui chiedere dove e in che modo potessimo scieglire e impilare le pietre. Dopo un pò di tempo, apparve un giovanotto che veniva a riferire e appunto non a parlare con noi. La voce del padrone con un tramite: tipico delle civiltà antiche.
Scegliamo le pietre per i gradini, per gli angoli e per il fondo del canale e le impiliamo dove ci venne ordinato eppoi decidiamo quale area della collina andrà scavata il giorno successivo. Questa cava era a metà nell’ombra dove c’erano 10 gradi e meta al sole dove ve ne erano quasi trenta e quindi il passaggio tra le due aree rischiava di far danni alla salute. E li fece. Il giorno dopo da solo mi avviai alla cava per aspettare il camion del Solari il nostro trasportatore o meglio il trasportatore del Manca. Parleremo di questi due più avanti. Arrivammo presto la mattina, sia il Solari che io, ma lo scavatore era senza carburante. Quindi, mettiti lì tranquillo che prima che arrivi passa la mattina, e fu così. Il Solari partì alle 11.30 del mattino del 27 settembre per portare le pietre al Manca, ed io anche con una bella polmonite addosso che sarebbe scoppiata il giorno dopo, ma questa è un’altra storia.
Finalmente avevamo le pietre e stabilito il ciclo del loro trasporto e quindi potevamo dire chiuso l’infinto ciclo amministrativo che avevamo attraversato per tutto il 2023. Anche Minerva sembrava contenta e specie si era calmata. Ma non durò molto come vedremo.
Dunque, incomiciammo a costruire o meglio loro cominciarono a costruire perché io putroppo finisco in ospedale dove rimarrò per un po’. Tornai sul campo a metà ottobre 2023. Ma andiamo a vedere chi sono questi che sino ad ora abbiamo chiamato loro e cosa hanno fatto.
3. Dal progetto all’oggetto: l’inizio dei lavori e i suoi attori
Abbiamo sempre parlato dell’Eremo di Niasca come se fosse un posto noto a tutti, cioè come se fosse Bologna o Milano. Ebbene questo posto è sconosciuto ai più, ossia è una località nascosta da fitti boschi sulle pendici del monte di Portofino che volgono a levante verso il golfo del Tigullio. Questi boschi in cui si inframezzano pini marittimi, lecci, noci e le vecchie piantagioni di castagni che nutrivano le popolazioni arcaiche locali fuggite dalla fame e dalla carestia a metà del novecento, oggi nascondono le sontuose ville dei nuovi barbari: ossia i ricchi. Cioè quella banda di ladri che non avendo ne arte ne parte sono riusciti a mettere insieme fortune tali solo muovendo un capitale da una parte all’altra del mondo finaziario.
Per raggiungere l’Eremo bisogna infatti percorrere la strada che corre da Santa Margherita Ligure, lungo le scogliere del promontorio di Portofino sino a giungere alla baia smeraldo di Paraggi. Da li si prende un sentiero che si inerpica per un vallone ombroso dove rumoreggia tutto l’anno un rio dalla portata esigua. Dopo poche curve si esce dal bosco e su una piana ben ordinata si intarvede l’edificio squadrato dell’Eremo. La sua storia risale all’alto medioevo, ma di quelle mura non resta alcunchè se non le rifatte sembianze che qualche creativo padrone dell’ottocento ha pensato di rimettere insieme sulla facciata con le fattezze semi romaniche che affascinano i viandanti ignari della storia locale. Un luogo ameno, popolato d’inverno, quando l’attività di rifugio è chiusa, principalmente da due giovani intraprendenti accompagnati a volte da un minuta fanciulla che garantisce loro i pasti cucinando ed assicurandosi che questi due liguri non si nutrano direttamente dalle lattine o dal canestro della legna.
Ora questi due sono uno il contrario dell’altro. Ossia, uno che porta il nome teoforico di Giacomo che secondo l’etimologia vuol dire Dio ha protetto, oppure anche colui che soppianta o ancora colui che afferra per il calcagno, è fisicamente il suo nome. Ossia, per entrare dal portale dell’eremo è costretto a mettersi di traverso cosi da non travolgerne lo stipite. Mentre l’altro, invece, porta il nome di Luca, ossia è un nome derivante da lux, lucis, cioè luce, e lui fisicamente è, per magrezza e carnagione di porcellana, precisamente come il suo nome. L’uno, Giacomo incede con la pacifica sicurezza di un orso bruno, quando affronta l’opera immane di tagliare ligustri e rovi dal fronte del monte, senza che alcun ostacolo ponga in dubbio il suo passo, mentre l’altro, Luca, magro come la luce si insinua nel bosco così da far si che dove riesce a lavorare torni il chiaro. Ma vedremo che, avendo nel gruppo molti Luca e Gianluca questa psicologia si adatta a più soggetti.
Come molti liguri però, per evitare di consumare troppa aria, la loro voce è bassa e calda così da mettere a riposo chiunque si metta a discutere con loro ed affrontare con un po’ di vantaggio ogni disputa. L’orso e l’ombra, detto anche Mozart per le sue esili dita che cavalcano il computer nelle ore di amministrazione dell’Eremo, come tutti i sognatori dei sogni di dio, hanno alle spalle una donna. Ora questa donna esile dagli occhi chiari e timidi è tutt’altro che un fanciulla sperduta nel bosco, è piuttosto quella che fa accadere le decisioni visto anche che procura e fa i pasti e d’estate si accompagna con l’unico inglese che parla italiano con accento genovese, tale Antony. Ma di lui parleremo più avanti.
Tale fanciulla porta il nome di Federica e se vogliamo ancora una volta appoggiarci alla storia del nome vedremo come si inserisce perfettamente in tutto il progetto. Si tratta appunto della forma femminile del nome Federico, composto dagli elementi germanici frid che, in tedesco, vuol dire pace, e ric che vuol dire, sempre in tedesco, sovrano, signore o potente. Ossia una donna che non essendo ligure, o ligure per sbaglio, dalla penombra germisce vivacemente tutto ciò che trova al suo passaggio, essendo sempre all’attaco, come un torrente passa su tutti gli ostacoli oppure trova schiumando un nuovo e diverso corso, cioè una donna dalle passioni mutevoli che va incontro alla vita con dolce veemenza.
Ora questi tre vivono a tempi alterni nella valle di Niasca, ossia sotto l’altopiano che dall’alto del monte di Portofino guarda il golfo del Tigullio. Ebbene, lassù dove finisce il bosco a levante della località di Olmi sul crinale che discende alla chiesa di Nozarego, dove il monte si stende con ampi prati e tratturi di mezza costa, ecco là vive la Minerva che con sguardo attento vigila sul farsi della vita dei valloni sottostanti compreso appunto quello di Niasca. Pertanto, questa gioventù è sotto l’ombrello vigile della Minerva e quindi reagisce di contrasto al suo dominio con un comportamento anarchico, gestendo l’Eremo come un casale di fuggugiaschi dove ogni tanto l’orso giudato dalla Matidilda di Costanza riporta l’ordine. Si, perché tale Federica come la Matilda di Costanza, più nota anche come Matilda di Canossa, è l’anima ordinata e severa dell’eremo. Non è sempre lì ma quando c’è si vede: i ragazzi lavorano, le motoseghe suonano nella valle le loro fatiche e lei insieme all’inglese Antony parlano di cucina e disegnano i pasti degli ospiti appogiandosi ad una letteratura gastronomica delle cui fonti nessuno ha notizia. Specie Antony - un soggetto questo, che fuggito di corsa decenni orsono dai cieli bassi e piovosi dell’Inghilterra della provincia per approdare in Italia, ancora oggi, di nascosto, si nutre di prodotti britannici, che riesce a trafugare sul mercato continentale europeo, quali ad esempio il Marmite – una inimmagiabile crema di lievito non meglio identificata – che nasconde in ogni angolo delle cucine dell’Eremo – Antony, dicevamo, si esercita nel sovrapporre spezie alle erbe che Matilda, come una speziale, raccoglie nella brughiera. Da tali innesti nascono dispute barocche su quale dovrebbe essere il sapore vincente o ancora quale sapore si accoppia meglio con una altro. Essendo che la cucina è connessa alla sala centrale da un vano verticale nel quale un argano fa salire e scendere le pietanze per gl’ospti dell’eremo, queste discussioni sono amplificate per il piacere di tutti i commensali. Ma veniamo a noi.
Si chi siamo e da dove veniamo, come si dice!! Ebbene, noi siamo un gruppo che si è formato per caso nel lontano 2012 per un gioco delle parti tra amici che ci portò poi a trasformare quel gioco in una professione di cui tutti sentiamo oggi le conseguenze fische, ed io, l’estensore di queste memorie, essendo il più vecchio, sento ancor di più degli altri. Questo gruppo è andato crescendo con uomini e donne che ci hanno accompagnato e imparato e poi diminuendo quando ognuno di loro ha preso la sua autonoma strada nella professione diventanto abile e rinomato/a anche grazie alla cura che noi avevamo messo nella loro educazione, e che oggi conta solo tre soggetti ossia Gianluca, Vincenzo ed io. A noi, per questo progetto, si è nuovamente avvicinato un nuovo giovane di nome Luca. Questo nome lo abbiamo già visto ma al contrario del precedente questo Luca ha caratterische ben diverse dal primo che cercheremo in sintesi di spiegare.
Quando incontrai questo Luca qualche tempo addietro sugli acclivi di Semorile, una sventurata località costale ligure abbandonata sopra la cloaca di Zoagli, sulle alture del golfo del Tigullio, era un giovane pieno di entusiasmo e di domande sul come e in che modo questi dannati muri adassero fatti. Ed io sol uno mi misi quel giorno a sfarinarne i dettagli stando dietro al suo muro come si addice appunto ad un docente che parla con animosità al discente. Ed allora, quest’anima sfavillante mi sembrava una promessa. Tale fu l’impressione che dissi a tutta la banda: “Visto l’età e l’entusiasmo, tiriamolo dentro!!!”. E così alla fine abbiamo fatto. Questo Luca però, un giovane smilzo e dinoccolato di bella presenza, alto, che parla con accento sabaudo, poiché viene da Alessandria, con un volto affilato dagli occhi neri e una capigliatura da saraceno con una pelle olivastra e un sorrisetto sardonico sempre stampato in volto, nascondeva un lato che avremmo dovuto scoprire nel corso dell’opera. Prima peró di venire a lavorare con noi, come tutti i giovani si era avventurato a convivere con altre pericolose bande di muraglieri che calando dalle alpi venete avevano conquistato la bassa val di Taro.
Queste bande, come gli sciiti iraniani erano convinti di aver letto il corano dei muri meglio di tutti. Si!! Non solo di tutti oggi, ma di tutti sin dai lontani tempi andati. E come ogni giovane trovandosi davanti ad una dottrina, la cui forza consiste nella generazione di una ideologia, poiché essa non sia malferma viene passata come verità unica e assoluta alla gioventù, la quale appunto ha bisogno di un appiglio, e cade cosí nella falsa credenza che quella novella sia non solo la più verosimile, ma che essa appunto, sia la verità stessa. Ecco con il passare dei giorni in quelle compagnie e vedendo le opere farsi, il giovane si andò convincendo che tutto ciò che io con passione e fatica gli avevo raccontato allora, andasse rettificato e perciò venne a lavorare con noi come le spie lavorano appunto gomito a gomito con il nemico. Ma dietro quella maschera del mushaidin desideroso di battaglia e libertà, il nostro saraceno aveva lavorato nell’industria come agronomo nella gestione delle terre sabaude dove si coltiva il riso in qualità di laureato agrimensore. Cioè s’era occupato di far si che le acque, lungo i chilometri quadatri che da Vercelli portano alle bocche della valle Scrivia si muovessero con un certo animo e quindi era uso a pensare l’inclinazione delle rogge dove un centimetro di altezza doveva essere proiettato per chilometri di superficii. Ossia un vero e proprio agrimensore che, come un incolpevole delle pagine di Hermann Broch, camminando le lande ne decide il destino e la forma, cioè a dire una gestione totale del ciclo vitale delle terre stesse. Si, un incolpevole, che però da questa formazione delle origini, miscelata a quella recentemente acquisita dalla scuola sciita della pietra, risultò essere alla fine esplosiva. Il nostro agrimensore saraceno infatti cominciò a far calcoli di rischio e proiezioni di consumo delle pietre, rapporti tra i sacchi delle pietre e l’estensione delle facciate, calcolando delta di ogni tipo e dettando così, dalla fine settembre 2023 più o meno sino alla fine di quell’anno il dove e il come andassero calcolate le quantità di pietre e specie dove metterle. Scoprimmo ben presto che al di là della cura per le quantità il nostro bel saraceno, sì il pedante agrimensore, usava pietre nella cosidetta massicciata ben ammorsata suggerita dalla scuola jiahdista, con cui noi invece avremmo potuto fare molti metri di paramento: la scuola francese, appunto, dunque una vera spia, …. gli mancavano solo le larghe bretelle rosse dei cavatori della Cévennes francesi.
Ma l’agrimensore, vista l’esperienza sul campo, sapeva che senza una squadra ben affiatata non si va da nessuna parte, e pertanto come nelle epoche passate i cristiani per soppravivere si sono passati per mussulmani, gli ebrei per cristiani e cosi via, ossia vivere ordinatamente celando la propria natura e fede come appunto suggerisce Nicodemo nelle sacre scritture, ebbene il nostro bretella per far parte del gruppo, oltre ad ordinare a tutti in qualità di comandante di vascello cosa fare, cercò di immedesimarsi nella derisione costante e quotidiana del vecchio, cioè io. Da anni ormai il gruppo prende di mira, a proprio rischio e pericolo, le ingiurie che il tempo ha fatto sul mio corpo e sulla sua sempre minore veemenza. Questa derisione fa felice questa banda di mentecatti. E allora cosa fa l’agrimensore saraceno, il bellinbusto dal piglio sabaudo, si unisce al coro e alza anche la voce senza sapere che il rischio è altissimo poiché io concedo un paio di scemenze ai membri storici e poi botte, mentre al parvenu non do concessioni alcune. Quindi botte, quando cerca di fare il commander in chief insistendo sulla la produttività del cantiere, o quando ancora, con il solito sorrisetto sardonico, incede sulle costanti battute di quell’asino di Gianluca, che già soffre sotto le mie tuone, così che mi tocca anche di rieducare il nostro bel agrimensore. Perché io sono severo, si !! Ma sono anche giusto!!
Visto che è stato citato, Gianluca, va presentato. Ora, questo caso umano come vederemo è di difficile lettura per le infinite implicazioni che un individuo così magro può avere sul prossimo e specie su se stesso. È vero che la magrezza non è una garanzia di semplicità, ma tuttavia da così poca massa ci si aspetterebbe meno generazione di caos, invece qui siamo di fronte al caso inverso: tanto meno massa quanto più disordine e complicazione, drammi e affanni.
Ma comiciamo dalle origini, nessuna paura, saremo brevi e concisi per quanto si può. Ora, io conobbi Gianluca quando ancora riuscivo senza fatica a cavalcare i monti come fossero il giardino di casa, quindi forse più di un decennio fa. Per uno sventurato caso ci trovammo a dare una mano ad un allora comune amico i cui genitori hanno ancora una proprietà sulle alture di Camogli, la dove la doppia cresta del monte Esuli si piega con una serie di curve sulle isoipse verso l’orrido della valle del Gentile nella cui ombra si estende il Passo do Barbè. Su quelle piane cominciò tutta la storia del Collettivo Milarepa. Sin dall’inizio era chiaro che questo nichilista non avesse un progetto utopico di aggregare quante più forze possibili per salvare dalla rovina la Liguria del Levante dalle mani inerti dei suoi abitanti, ma al contrario aveva solo l’idea di fare un mestiere da cui poter trarre un qualche vantaggio. Dico nichilista, perché ad ogni mio o nostro entusiasmo per un progetto o per la definizione di un opera, opponeva una paranoica indolenza, tale da non poter credere che qualsivoglia sforzo avrebbe potuto portare a un risultato concreto. A quell’epoca era però dispotico nella posa della pietra e nel frasi dell’opera. Cioè veniva considerato il talebano dei muri. Con l’andare del tempo però questa sua fama andò scemando visto che ormai avrebbe potuto posare pietre con gli occhi bendati. Ma l’acrimonia del suo incedere sulle opere invece crebbe. E la cosa strana è che con il crescere del suo puntuale modo di osservare i diffetti della posa altrui andò crescendo anche il numero delle paranoie che rendevano le sue notti insonni, cioè che svegliandosi nel cuore del buio avesse sudori freddi e si rivoltasse nel letto come un malato di lebbra sognando morti infernali dominate da dolori e patimenti senza fine. Ecco tutto frutto di una mente lanciata con piena inerzia verso quello che la medicina chiama appunto lunatismo. Ora questo zelo nel seguire i fumi delle sue proiezioni, con il passare del tempo, divenne tale che anche qualsiasi incombenza quotidiana sembrasse una muraglia insormontabile. Ogni piccolo problema, dal guasto dell’auto sino al fallimento della serratura di casa, o ancora al cedimento di uno scarico diventavano origine d’ansia e tormento.
Un individuo cioè che per natura era portato a guardare gli eventi mondani come un impedimento alla sua utopica e libera corsa verso il nulla. Si il nulla!! Perchè tra i suoi sogni ve ne era uno principe, ossia comiciare a camminare in una direzione qualsiasi, senza zaino o peso alcuno, non per raggiungere una meta, per quanto lontana potesse essere, ma per camminare e basta. Così da vivere tra un rifugio e l’altro e acquistare dove si fossse trovato e quando necessario il cambio delle scarpe o dei vestiti. Ossia, un anima raminga che incede sul globo terrestre senza una ragione come cercando di evadere dalla stessa nozione di vita, ossia superando l’esitente a passo lesto non avendo per tal sforzo nessuna motivo fondato. Come Raskòlnikov in “Delitto e Castigo”, inseguito da una urgente sete di penitenza, questo mentecatto, pensava che così facendo si sarebbe liberato dal soverchio peso delle giornate che invece passava ai muri insieme a quello, che sin dalle orgini era stato il suo compagno di sventura, e che anch’egli portava con sé un peso esitenziale così grande che il loro coro sarebbe potuto essere definito il manifesto dei dannati. Quest’altro soggetto è appunto Vincenzo: il terzo uomo.
Ora questi due schizzopatici, si erano incontrati, anni orsono, durante un corso sulla muratura a secco che era stata offerta dalla regione Liguria, alla gioventù. E facendo parte di quella allegra brigata di giovani che non sapevano per nulla a cosa avrebbe portato seguire quella carriera, si gemellarono nei loro sforzi per riuscire a trovare un mestiere nuovo. Da allora la loro alleanza ha sempre retto. Poiché quando l’uno cede l’altro tiene e viceversa. E quindi saremo costretti a presentare questo meccanismo di mutuo soccorso come fosse una sola macchina all’opera. Tuttavia, tra Gianluca e Vincenzo vi sono delle differenze significative.
Vincenzo, al contrario del suo socio, che sta comodamente accuciato nella comunità borgese di Camogli, è un uomo pratico. Cioè si sa muovere e trovare soluzioni agli impedimenti del vivere quotidiano, solo che il superamento di queste difficoltà diventa, con il passare degli anni, sempre più faticoso. D’altro canto a certo punto della sua vita ha deciso di lasciare qualsiasi contesto urbano sciegliendo di avventurarsi nel mondo agreste come se esso fosse un posto comodo dove appoggiare le proprie ossa. Infatti, a un certo punto anni fa, un giorno ci informa di aver acquistato una dimora in una località di cui nessuno di noi aveva mai sentito il nome. Tale località, sul confine tra Liguria e Emilia Romagna, si chiama Menta e si trova in un vallone stretto che a pochi chilometri da Santa Maria del Taro, dal fiume risale a nord-est su una piana amena in cui non abita nessuno tranne lui e la sua compagna. E qui cominciano i dolori. Infatti, un uomo che per gran parte della sua vita, ha visssuto in una comunità urbana sulla costa, con le sue abitudini e i suoi vizi, d’un tratto lanciato nel buio dei castagneti che lo guardano dal monte Penna o dall’Orocco verso levante, che per raggiungere il fronte marino deve superare il passo del Bocco, si trova ad essere l’unico abitante di un paese abbandonato da Dio e dagli uomini, è messo difronte all’insormontabile impresa di dovere gestire l’accesso ai casolari e fronteggiare anche l’idea che coltivare quella terra possa essere uno sforzo immane. Ora la domanda viene naturale: perché scegliersi un eremo così lontano da tutto e da tutti in una valle, quella del Taro, che sta per spegnere tutte le luci dei suoi paesi vuoti ? Ebbene per rispondere a tale domanda, bisogna fare un passo indietro.
Ossia, questo anelito alla solitudine, altro non è che la realizzazione della diffidenza mortale che un saraceno ha per il prossimo. Eh si, si!! Anche Vincenzo, come il nostro agrimensore, ha origini siciliane, e là sulle sconfinate piane salate di Trapani, battute dal meltemi e dai venti del deserto del sahara, l’eccesso di fiducia nel prossimo può rivelarsi fatale come lo può essere anche sulle pendici dell’Etna. Questa animata turbolenza del dubbio, muove le anime dei saraceni a tal punto che la loro storia è appunto costellata da contrasti dovuti sì a interessi comuni ma al contempo da rivincite mai sopite. Pertanto, le domande fatte con apparente ingenuità in realtà sono il regno dove si prova la lealtà dell’altro, di cui appunto diffidando, è neccessario avere una verifica. Ma questo metodo di comunicazione e specie di percezione del mondo con l’andare del tempo si rivela essere paranoico. Ed è qui dove i due si incontrano: la totale paranoia, dubbio, incertezza, diffidenza che genera nell’uno una morbosa curiosità per i fatti della vita altrui e nell’altro il timore che la mano offerta possa essere quella criminale dell’ultimo atto.
Era il 23 di Dicembre del 2023, quando, appunto con questo esercito che ho descritto qui sopra, consegnammo i 2/3 dell’opera alla Minerva che ci aspettava
nell’eremo assicurandoci che i nostri sforzi sarebbero stati remunerati in tempo reale. Tutti dovevano partire per qualche destinazione e quindi frettolosamente si fecero i necessari convenevoli
e partirono lasciandomi l’incarico di chiudere il tutto. Ce l’avevamo fatta. Mi rimisi i vestiti da civile e una giacca visto il vento e la pioggia che cadeva abbondante, chiusi l’eremo e mi
avviai verso la valle di Niasca dalla quale, con i lecceti e castagni battuti dal vento e il mare imbiancato dalle ochette con l’ultimo lamento del sole che scompariva velocemente all’orizzonte,
raggiunsi la carrereccia deserta. Una volta sulla strada con gli spruzzi del mare che raggiungevano l’asfalto, presi a camminare al buio verso Santa Margherita, e nel clangore della tempesta,
solo e stanco, pensando a tutte le nostre fatiche, mi tornarono alla mente i versi del secondo canto dell’inferno del poeta che appunto recita: “Lo giorno se ne andava a l’aer bruno/ e togliea
gli animai che sono in terra dalle fatiche loro/ ed Io sol uno mi apprecchiava di combatter la guerra/ si del cammino che della pietate che ritrarrà la mente che non erra/ o muse o alto ingegno
or voi mi aiutate/ o mente che scrivesti ciò io vidi qui si parrà la tua nobilitate”.
Nota alla seconda parte
In questa seconda ed ultima parte delle nostre cronache, daremo conto delle svariate attività che hanno caratterizzato l’ultima e più complessa fase del progetto. Perché più complessa? Lo vedremo nel dettaglio ma in sintesi si potrebbe dire che la difficoltà era principalmente nella gestione ordinata, delle pietre e delle singole parti dei muri da finire e della nostra infinita stanchezza.
Dunque questo nostro diario di bordo ci porterà sino alla fine dei lavori ancora una volta in compagnia dell’esercito che abbiamo descritto sin qui con l’aggiunta però di personaggi occasionali che a volte sono passati come meteore nel progetto. Ma andiamo a incomiciare.
Il ritorno, i neofiti, gli elicotteri e le pietre
Il 2024 era arrivato, e tutti tornammo all’idea che - se ci fosse piaciuto o meno - la Minerva ci aspettava sulle alture di Niasca pronta a battere con il mastello, come Caronte sulle rive dell’Acheronte, chiunque s’adagia. Si perché il tempo corre, e la Minerva non aveva passato le vacanze, come fan tutti, in montagna o al mare guardando tramonti romantici o sopravvivendo a tempeste di neve in un rifugio sulle alpi, no !! La Minerva era stata a casa, nella sua stanzina, e per regalo di natale, aveva pensato bene di organizzarci, per la seconda settimana di gennaio, precisamente dal 12 al 14 di gennaio 2024, un bel corso formativo con 15 persone che sarebbero venute da ogni dove a sentire le nostre urla nella valle di Niasca. Ora, i partecipanti a questo corso, le loro storie, e come nel dettaglio andarono le cose non le racconterò, se non per sommi capi, poiché un simile racconto meriterebbe un capitolo a parte ed andrebbe ben più lontano dell’orizzonte entro il quale vorremmo riuscire a tenere queste memorie.
È chiaro che organizzare un corso sulla tecnica della pietra a secco per dei neofiti sul terreno non è un esercizio semplicissimo ma neppure un impresa tale da doversi svegliare nel cuore del buio grondandi di sudore o perdere l’appetito.
Ebbene, no !! C’è chi invece per simile impresa si lascia travolgere dai marosi del dubbio e dalla foga di un ordine inconcepibile per un cantiere appeso in montagna come questo. Così fu che già il 2 di gennaio del 2024, senza neppur terminare le vacanze, quando il mondo sta ancora digerendo il pranzo di capodanno, la nota coppia di schizopatici, Gianluca e Vincenzo, di prima mattina sotto un cielo plumbeo con il vento in fronte salirono al monte, come francescani fuggiaschi in cerca di una punizione, e cominciarono a dimenarsi tra i sacchi delle rocce, cercando di aprirne il numero maggiore possibile, ma sapendo che in due non avrebbero mai potuto mettere ordine su quella distesa di sacchi bianchi che coprivano ancora le piane alte.
L’idea era di preparare le pietre per i corsisti. E ciò in se non pecca, ma pecca l’idea di farlo in due con quelle pietre giganti che avevamo raccolto sulle terrazze alte del cantiere. La malata idea era di mettere davanti allo scavo del muro, dove la settimana successiva si sarebbe svolto il corso, tutte le pietre che sarebbero servite per far quello stesso muro impendendo così che qualsiasi cristiano si potesse muovere sul fronte dello scavo.
Questa nozione di “ottimizzazione”, assolutamente avulsa da una attività come la nostra, purtroppo circolava come un morbo tra più menti, una specie di circolo dei virtuosi psicopatici, che pensavano di fare in anticipo ciò che si sarebbe potuto fare con comodo a tempo debito, credendo così ingenuamente di aumentare la velocità esecutiva, e quindi cadere nell’infantile idea di accorciare i tempi di realizzazione dell’opera. Ecco tale baco nel modo di pensare questo lavoro, lo trasforma in una specie di persecuzione permanente, dove ti si prospetta una vita non dissimile da quella di un detenuto ai lavori forzati o quella di Django. Cioè un idozia!! Ma nonostante le mie rimostranze, il giorno 8 gennaio 2024, con un vento a 32 km/h un cielo insaccato di cumuli grigio-neri gonfi come caraffe d’acqua, prendemmo la via del monte sotto i castani e i lecci piegati dalla furia di una tempesta incipiente, e così, con la banda al completo, ripresero a pieno ritmo i lavori
Quel giorno lo avremmo dovuto dedicare a quello che il nostro bel agrimensore saraceno chiamava, con voce paludata e severa, la logistica. Un termine molto di moda negli ultimi tempi, che però in parole povere, significava terminare la movimentazione delle pietre iniziate qualche giorno prima.
Nel fare questo trasporto manuale di pietre dalle piane alte verso quelle basse però esplose il morbo dell’ottimizzazione che appunto accomunava i tre mentecatti, i quali a tal fine avevano però tre progetti diversi. L’agrimensore a gran voce declamava come si sarebbe dovuto fare, e dove mettere le pietre e chi avrebbe dovuto fare cosa e come, non perdendo il vizio, nonostante le legnate, di salire sul terrazzo di poppa della nave e lì nominarsi da solo comandante di vascello.
Ora, l’agrimensore camminava su e giù come un ossesso per la piana dalla quale secondo lui si sarebbe dovuto prendere le pietre, un passo veloce divorato dall’ ansia di realizzazione, con il volto trucido e sudato e la voce metallica, ma Vincenzo, che certo aveva sentito la chiamata corale, percepì un sapore imperativo nella canzone che non apprezzò affatto, e quindi ingnorò il tutto continuando ciò che stava facendo come se nulla fosse accaduto, solo manifestando con un borbottio impercettibile il suo dissenso.
Questo gesto mise alla prova l’architettura emotiva del nostro agrimensore saraceno, che sentitosi abbandonato nella polvere dei sacchi sotto il vento gelato di gennaio, con un esplosione di furia permalosa disse:”Vabbè, allora, vado a farmi una passeggiata !!!” In tutto ciò Gianluca il parvo, taceva, estraendo anch’egli, la dove era, altre pietre senza colpo ferire. Fu solo con un intervento radicale del vecchio padre Anchise, che con una serie di ingiurie mandando al diavolo l’ottimizzazione, riportò questa malata gioventù al solo obbiettivo, tanto semplice quanto faticoso: metti le pietre in fila e lascia un sentiero davanti allo scavo e basta!!. Ecco questo stralcio di vita lavorativa collettiva è ben poco cosa rispetto a tante altre discettazioni delle quali qui di seguito cercherò di dare, spero, una sintetica relazione.
Nei giorni che ci dividevano dal corso, ossia il 9, il 10 e l’11 del gennaio 2024 emerse un altro dramma interpretativo sempre generato dal nostro mujahidin questa volta sostenuto però anche da Raskolnikov addolarato e piegato nelle sue immaginarie malattie. Avevamo raccolto le pietre, lo scavo era fatto, c’erano ancora due giorni per il corso e la domanda dei malati quale è: “Beh, visto che abbiamo le pietre qui, portiamoci avanti con la fondazione e con i primi corsi del muro??!!” Ecco !! Qui si vede brillare come un diamante l’acciecante demenza del nostro circolo dei virtuosi psicopatici. Cioè, andiamo a fare quello che avremmo dovuto insegnare ai corsisti, anziché lasciar fare a loro, appunto, quel tratto dell’opera, così che potessero almeno imparare i rudimenti del mestiere. Questo è il risultato di aver contratto il malanno mentale dell’ottimizzazione che, come vedremo, segnerà gran parte dei lavori.
Quindi per non scontentare nessuno si decise di fare almeno una porzione della fondazione e lasciarne una parte ai corsisti. Si, perché questa fase della costruzione, non solo è nevralgica per la stabilità del muro stesso, ma anche la più faticosa, in quanto si è costretti ad usare pietre molto grandi con un peso a volte impossibile da muovere per quattro uomini in forza.
Visto che il corso ci offriva della manodopera – magari anche giovanile - perché non lasciare a loro quest’incombenza limitandoci, per una volta, a dirigere le loro incapaci manine ?? No!! Sei nato per soffrire, e basta, ergo fondazione!!
Ci siamo è venerdi 12 gennaio del 2024, una giornata dal cielo sereno e con il calare del sole, che nella valle di Niasca d’inverno sparisce verso le undici del mattino dietro al monte di Portofino, la temperatura raggiunse un massimo di otto gradi, e noi tutti quel giorno avremmo dovuto tenere nel primo pomeriggo - ossia verso le 16 quando la valle ormai nasconde nell’ombra tutto l’eremo facendo di esso l’unico punto luminoso dei boschi - quello che chiamiamo lezione teorica sulla muratura a secco. A questa lezione però non partecipano solo quelli che poi effettivamente verranno sul campo con noi, ma è aperto al pubblico e quindi è popolata da soggetti della natura più varia, spinta a presenziare in gran parte dalla sola curiosità generata da quella sconfinata ignoranza che regna sovrana sulle pratiche della muratura a secco.
Questa brigata, composta principalmente da urbanoidi pentiti, neo-propretari di terreni in genere stranieri, autorità locali e qualche volta anche da soggetti che per lungo tempo hanno messo mano sì sulle pietre, accompagnadole però con il delirio del cemento. Ecco, quest’ultima tipologia di umanità è divisa in due sottogruppi: il primo, costituito da veri e propri pentiti, che sono venuti come dervisci per essere iniziati alla traumatica liberazione dalle tossine della malta cementizia e invece il secondo gruppo, è composto da soggetti che in cuor loro sperano di dimostrare la fallacia di questa nostra metodologia costruttiva.
Ma quest’ultimi sono facilmente identificabili, perché anche dopo le due ore di lezione, teorica prima e pratica poi, quando tutto è terminato, alzano la mano e chiedono:”Ma, alla fine, dietro al paramento un po’ di cemento lo mettete, no ??”.
Eccolo li, il sommo somaro, l’asino ragliante che non ha capito un tubo di quello che noi, con passione e fatica, abbiamo spiegato. In genere questi impediti non partecipano alle attività del cantiere, o se sì, vengono guardati a vista e su di loro cade il flagello di dio, facendogli muovere pietre enormi e chiedendogli ad ogni piè sospinto, appena posata una pietra:”Si muove?? Ehh!! Fissala, dai su, su!!”. Insomma per loro inizia un doloroso percorso educativo che al termine dei due giorni di cantiere, li vedrà andar via con la schiena e le braccia doloranti, ma finalmente, anche con la convinzione profonda e liberatoria che appunto si può e si deve lavorare i muri di fascia senza cemento.
Ora tra la categoria dei pentiti davvero, arrivò da noi al corso un allievo di nome Lucio. Un uomo robusto e giovane di bell’aspetto che con la sola presenza era capace di influire sulla animosità positiva di tutta la comunità dei neofiti ancora timidi e sorpresi dal fatto che il lavoro si sarebbe svolto su delle pendici impennate, senza ombra o acqua, e che da nessuna parte v’era lo scorcio di un mezzo meccanico che potesse esser d’aiuto alle fatiche loro, capendo così, d’un tratto, che quel giorno il sudore, senza sosta sarebbe stato tutto e solo nelle loro schiene e nelle loro braccia. Ebbene, questo simpatico giovanotto, si presenta, ed alla sola prima frase, si capisce d’un tratto che questo soggetto con tutte le qualità possibili, positivo e fermo nel suo fare, ha però un problema e non piccolo: è un tosco. Ora, noi non abbiamo alcun pregiudizio nei confronti dei toscani, ma siccome io li ho conosciuti per più di quindici anni, e conosco il loro sardonico sarcasmo su chiunque gli capiti a tiro, fui costretto a prendere il ragazzo da parte e dirgli: ”Mio bel tosco, te tu sei venuto qui per lavorare vero??” – La risposta, come sempre da un toscano, si fece attendere, e suonò: ”Si, si, milanda!! Io sto qui a batter la terra e te tu che fai!!” – Ecco, lo vedi tosco così si comicia male, testina !! Molto male!!!!”. E quindi, per contrastare il giovanotto fui costretto a rispondere: ”Oh Lucio, che la mal parata dell’Arno ti ha gettato su questa piaggia, vuol dire che te tu oggi corri dove dico io, e mentre che te tu corri canti anche, ed il canto, bellino mio, lo decido io, oppure te tu giri i tacchi e te ne torni sull’Arno a prendere la salmonella!!”. Coi toschi sei costretto a usare il loro idioma antiquato.
Di norma non trattiamo i nostri ospiti così, ma con un tosco era necessario e nelle prossime righe vedremo perché. Ora, la Toscana condivide con la Liguria l’infausto destino di avere un entroterra, cioè una terra desolata abitata da un’umanità che resiste in piccole e chiuse comunità agrappate a monti brulli ed ad una vita elementare. La differenza però tra la popolazione dell’entroterra ligure e quello toscano è che questi ultimi sanno alfabetizzare i loro, per cosi dire, pensieri, mentre i primi non arrivano che all’espressione gestuale, rimanendo silenti e basiti, con lo sguardo spento teso ad un orizzonte mai raggiunto. Ora Lucio, veniva appunto da quell’entroterra che si chiama appenino tosco-emiliano, o monti casentinesi, da una località cioè, che verso l’inizio del ‘900 si rese celebre per esser riusciuta a spopolare tutti i monti che, dalla Vallolmo risalgono sin alla Vallombrosa, dando lavoro ai villici in uno dei lanifici più famosi dell’alta val d’Arno.
Questa località, dominata dall’Eremo di Camaldoli ad est, da Capo d’Arno a nord, dai crinali che portano a Ponte d’Arno a sud e dal castello di Porciano a ovest, si chiama Stia, e qui la popolazione è ruvida, ancor di più di quello che son già i toscani inurbati, epperciò era neccessario porre un limite all’interminabile numero di sciocchezze, che con naturale e tutt’altro che bonaria maniera, uscivano dalla sua bocca. Questo, naturalmente rese il corso più frizzante visto che io non lasciavo passare le sue aurguzie come tali, ma le rigiravo nelle pietre che lui avrebbe dovuto muovere. Perciò lo stile della conversazione continuò così durante tutti i lavori. Tutto si può dire di questo Lucio tranne che non fosse un lavoratore indefesso e capace, muto però, come si dice, sarebbe stato molto meglio.
Con lui lavorava alla fondazione, l’agrimensore, il quale, come abbiamo visto, non appena il coro chiama, lui non si tira indietro ma aumenta la dose, così che contro di me si erano messi insieme al basso, il soprano e anche le voci bianche. In tal modo, il corso fu diviso in due partiti, quelli, principalmente donne, che difendevano il tosco, dalle mie invettive, e quelli sani e di robusta costituzione che sostenevamo a pieno titolo i miei metodi educativi.
Quindi, noi, Vincenzo, Gianluca ed io, ci dedicammo alla posa della pietra e della sua lavorazione con gli altri neofiti, in una piana ed articolata spiegazione dell’uso degli strumenti e della lavorazione della pietra, cioè a dire, diventando matti a spiegare come si legge una pietra prima di lavorala, e specie con cosa e come lavorala. Il corso terminò il 14 di gennaio 2024 alle ore 17.00 oramai al buio, e tutta la banda si strinse nell’eremo, visto che la temperatura era scesa a 6 gradi, per prendere un po’ di tepore e prima del congedo collettivo Vincenzo fece i complimenti a tutti, cosa che io sottoscrissi, facendo però un eccezione per il tosco al quale, con una forte pacca sulla spalla, dissi:”Visto Lucio, che uscendo dalla Vallolmo e superando l’orizzonte del Casentino, riesci financo tu a percepire la curvatura della terra e te tu impari che la fuori ci sono altri mondi, ora questo che hai visto qui non è il migliore, ma sicuramente educativo, nevvero!!”. E con questa simpatica frase di saluto tutti presero la via della valle e noi anche, sapendo che il giorno dopo saremmo dovuti essere li dove il monte ci guarda arcingno e senza sosta.
L’incubo delle pietre era tornato !! Comiciavano ad esserci troppe poche pietre e quindi montare e finire il secondo muro sarebbe stato difficile. Per tre giorni andammo avanti a costruire e poi fummo costretti ad andare a insecchettare nuove pietre nel nostro deposito, nostro, magari anche no, nel deposito del Manca. Ora, questo deposito sta a mezzeria di uno dei versanti più ricchi delle colline di Santa Margherita Ligure che volgono a mezzo meridione e ponente congiungendosi con le alture del monte di Portofino. Per uno di quei misteri che avvolgono la Liguria e la sua amministrazione, questa zona è terra di nessuno. Il deposito cioè comincia dove finisce la strada carrabile e termina la dove strada torna ad essere carrabile da un mezzo normale. In questo triangolo di terra, non più grosso di un campo da palla canestro, sorge il rumentaio del Manca, nel cui bel mezzo abbiamo depositato le nostre pietre. Ora, il Manca, patriarca di questa desolazione, è un uomo intorno alla sessantina che porta ancora ben visibili i segni di una vita sportiva ed acrobatica come guida alpina. Un piglio da rocciatore, appunto, con un senso dell’umorismo che però è di difficile comprensione e una cocciutaggine da “faccio tutto io” che può andare fortemente sui nervi ai locali: lui infatti è foresto, immigrato dalla Lombardia trent’ anni orsono. La prima volta che incontrai questo Manca, all’inizio dei lavori nel 2023, nel bel mezzo del suo regno dell’abbandono e di rovine, ebbi l’impressione che qualche scherzo ce lo avrebbe potuto fare: un uomo dal passo fermo, capelli brizzolati, occhi azzurri e sempre con un sorriso stampato in volto che stringendoti la mano ti frattura le falangi, ti mette in guardia. Un lombardo sotto mentite spoglie liguri non è una buona premessa, poiché questa ibridazione rischia di mettere insieme due mali ed escludere ogni possibile beneficio, che, quand’anche fosse stato incluso, sarebbe stata ben poca cosa visto la materia primaria della mescola. Ma questo avevamo e ci dovevamo adattare. Lui oltre a tenerci le pietre che arrivavano dal Marchisio, ci aiutava nel riempire i sacchi da far volare verso l’eremo.
Il 19 di gennaio 2024, ci presentammo, come concordato, al cancello del rumentaio, dopo aver parcheggiato le auto sulla lato a valle sulla curva della strada sterrata sferzata da un vento di libeccio a 47 km/h che alzava polvere dappertutto, sembrava d’essere in uno di quei film western di seconda classe dove si vedono grovigli rovi che rotolano sospinti dall’aria insabbiata d’ogni cosa. Il cancello era chiuso e del nostro mastro lavoratore nessuna traccia. Eppure, la sua teoria era prima inizi prima finisci, ma si vede che quella mattina non aveva letto i suoi stessi proverbi. Verso la mezza compare su un camioncino semidemolito e scende senza salutare nessuno, ossia una giornata che comincia male. In realtà, la sua teoria del prima cominci eccetera – almeno nel modo in cui la vedevamo noi – non era a suo vantaggio, in quanto più ore ci metteva a fare il lavoro tanto più ci avrebbe guadagnato. Ecco è qui dove la nostra interpretazione fallì. Lui non calcolava le ore, ma i giorni. Dunque tutta la giornata costa un tot, e non quante ore hai fatto in quella giornata. Questo metodo di tagliare denari dall’albero del nostro budget l’abbiamo scoperto troppo tardi. A Milano, questo genere di metodo è chiamato “grattar giò i danè dal mür!!” – che tradotto vuol dire “garattare giù i soldi dal muro” - e lui, essendosi mescolato ai nativi sulla costa dell’unica regione del Mediterraneo che raffigura un sorriso al contrario tipico dell’improbo consapevole, connivendo con questi perduti celti locali, aveva imparato bene, e per osmosi, il metodo. Pertanto si cominciava quando voleva lui e si smetteva quando voleva lui, giorno più, giorno meno erano solo fatti nostri. E oltre al danno anche la beffa !!! Mentre accendeva lo scavatore urlava: “ Dai ragazzi, dai Mario, il sacco !! Rapidi !!” Come se volesse farci un favore, che invece si rivelò l’esatto contrario, e per altro nessuno si chiamava Mario!!. Tanto più noi andavamo veloci, tanto prima lui poteva andarsene e dare la disponibilità della stessa giornata ad un altro, il quale, non lo avrebbe pagato a ore neanche lui, ma appunto a giornata. Come vendere due volte lo stesso servizio.
Era stata la Minerva a trovare questo soggetto. Il nostro vantaggio era che il deposito distava solo quattro minuti di volo dall’Eremo e quindi questo ci avrebbe fatto risparmiare una gran quantità di denaro, “ci avrebbe fatto”, appunto se non avessimo scoperto troppo tardi come quel risparmio in realtà finisse per rovescirsi nelle fatture del Manca. Tuttavia, il Manca fu fondamentale per organizzare il trasporto di questa immensa quantità di pietre che avremmo poi dovuto muovere e lavorare a mano per finire l’opera. Quel giorno il 19 di gennaio 2024, finimmo i sacchi, con la Minerva che correva in giro per le ditte al fine riuscire ad avere almeno 50 sacchi pieni. Ma i nuovi sacchi arrivarono però solo il 31 di gennaio 2024, d’altro canto siamo sempre in Liguria, e quindi il 31 di gennaio 2024 fummo costretti a pagare, con i nostri soldi e la nostra fatica, un'altra giornata al nostro bel alpino, ma almeno i sacchi erano pronti per il volo che come vedremo non fu impresa semplice.
Il mese di gennaio 2024 sembrava dover essere un epoca di lavoro normale. Il secondo muro non poteva crescere e quindi tanto per tenerci in esercizio l’agrimensore dichiarò che lui era disponibile a scavare la fondazione sino al termine stabilito per quel muro. Cioè una movimentazione di trenta metri lineari di terra per un muro alto un metro e cinquanta e profondo un metro cioè la bellezza di 45 metri cubi di terra scavati e trasportati a mano. Ma la cosa più difficile fu decidere dove questo dannato muro dovesse finire. Ecco, il progetto prevedeva che questo muro congiungesse due bastioni di puddinga - la pietra sedimentaria nota come conglomerato che i locali chiamano con questo nome non dissimile da quello di un pane andato raffermo – uno a monte l’altro ovviamente a valle. Solo che la quantità di pietre che avevamo potuto acquistare non sarebbe bastata per far arrivare quel muro sino al bastione della valle. A tre quarti di quella linea vi era un melo. Questo melo, come le porte d’Ercole, non poteva essere superato, pena l’accorciamento di tutti i restanti muri. Ed è qui dove il nostro bel agrimensore si lanciò in uno studio parametrico delle propozioni tra la metratura cubica prevista e quella realistica comiciando, sotto lo sguardo attonito di Vincenzo e il totale disinteresse di Raskolnikov, che seduto su una roccia guardava nel suo telefono, ogni tanto annuendo come appunto un asino fa davanti a una mela. Beh!! L’agrimensore, l’età giovane e l’entusiamo di trovare un soluzione e il piglio da capo popolo, salì sulla piana più alta e da li, come frate Medardo, il folle predicatore del celebre romanzo di Hoffman L’elisir del Diavolo, preso da una infervorata estasi mistica comiciò con i numeri a disegnare il mondo tutto, questi avrebbero dovuto rappresentare grandezze fisiche, proporzioni tra grandezze, eppoi, al massimo della sua ascesa estatica, sì, sì, le proiezioni di consumo per cercare di convincere, con voce imponente di basso, che se ci fossimo fermati al melo, appunto le porte d’Ercole, tutti i conti sarebbero tornati al loro posto.
E qui a Vincenzo vennero gli occhi acquei, già chiari di loro, si fecero ancor più pallidi, sì, perché egli quel muro se lo immaginava già, lo vedeva come ultima pennelata sulla montagna, il nostro vallo di Adriano, che avrebbe toccato con forza il faraglione a valle, ossia un componimento musicale completo come un concerto grosso di Corelli, finendo così quella insistente curva dell’orografia che tanto ci aveva fatto faticare sin li dove eravamo arrivati. E mentre cantava le lodi di quest’opera, della sua esattezza e necessità, comiciò anche ad impolverare la voce per il fastidio di non poter andar fin dove il suo sogno l’avrebbe portato, e quindi rivolse lo sguardo ai cumuli delle pietre, ed ancora alla distanza da coprire, e per un attimo rimase in silenzio, guardò con acrimonia l’agrimensore, eppoi con uno straziante lamento aggiunse:” Non ce la faremo mai, mai !!”. La soluzione era andare dove avevo messo il segnale all’inizio dei lavori cioè poco dopo il melo. Per un fortunato caso però, questa volta l’agrimensore, il nostro Medardo, visonario della montagna, ebbe ragione. Ma ciò non fu dovuto ai suoi calcoli, no, no ! Bensì al fatto che, scavando, trovammo dopo il melo un vecchio muro posticcio interrato sul quale sarebbe stato impossibile costruire e impossibile da smontare. Quindi, sì, avremmo finito li!! In questa conversazione, il nichilista stava a guardare come sempre annuendo, quasi che, se il muro avesse dovuto continuare per chilometri, o fermarsi dieci metri prima, fosse un fatto assolutamente irrilevante, ossia come se questi densi fatti, che decidono il destino del manufatto insieme a quello che il manfuatto lo fa, fossero solo un trambusto da cortile e non una questione vitale per l’opera tutta. Il suo viaggio verso il nulla era cominciato da tempo! Eh, sì, e continuava alla grande.
Insomma la diatriba terminò nel momento in cui arrivammo alla fine dello scavo il 26 di gennaio 2024 davanti alla pianta maledetta. Scavando sotto il melo, vidi un albero scarno con rami mal cresciuti e malati in più punti. Questi, ti entravano nella schiena, o rischiavano di ferirti gli occhi. Ossia questa mal generata pianta, la cui sopravvienza fu dovuta solo all’accorato appello di tutti, in testa il responsabile del cantiere Maruffi, che al mio ordine di usare il violino di dio, ossia la motosega, il Paganini della giustizia sui muri, mi guardò con un ampio sorriso e disse: ”È catalogata!! Quindi vedi di lasciarla li!!”. “E va bene – risposi - ma barba e capelli glieli faccio lo stesso!! Devo farci un muro intorno, non un aiuola !!” E tutto il coro, guardadomi come se fossi Jack lo Squartatore, disse all’unisono:”Ma che fastido ti da?”. “Io faccio muri, e voglio avere meno nemici possibili intorno, e questo melo è un nemico serio, mi acceca se non sto attento !! Dio santo !!” - risposi. Non ci fu nulla da fare, andammo avanti a costruire, feriti dagli intoccabili rami delle porte d’Ercole, con i relitti litici che avanzavano dalla seconda mandata del Marchisio sino al 30 di gennaio 2024.
All’inizio di febbraio del 2024, nella devastata Liguria del Levante, arrivarono con violenza inaudita i monsoni. Dai dati riportati dall’ARPAL - Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ligure – ci furono globalmente nell’area levante del genovesato 313 mm di precipitazioni, ossia un aumento del 16 % rispetto all’anno precedente. Parte di questa pioggia cadde appunto nella prima settimana di febbraio, e quindi, nonostante i cieli bassi invasi da cumolonembi prima e da nere incudini accompagnate da cirrri color ruggine che rendevano l’aria e la luce faticosamente post atomica, le bestie volevano lavorare e feci fatica a convincerli che non v’era alcuna ragione di andare a stare tutti sotto l’acqua, in mezzo al fango e alle pietre scivolose. Alla fine, stammo tutti rintanati in casa per un po’, un riposo per le ossa e la testa. Ma la mattina del 6 di febbraio 2024, giorno previsto per il trasporto delle pietre via elicottero, fummo costretti a tornare sul campo.
Ecco in questa giornata abbiamo potuto av ere la prova che il vecchio, è proprio vecchio. All’arrivo della squadra di terra dell’agenzia di volo, le operazioni cominciarono alle ore 9.00. Fui costretto ad accompagnare il secondo addetto, quello ricevente, la dove inizia la salita verso l’eremo e quindi tra andata e ritorno, dal rumentaio a Paraggi, passarono 40 minuti. E vengono le 10.00 e del mezzo volante nessuna traccia, con l’addetto alla presa dei sacchi – cioè quello che lavorava con il Manca e me nel rumentaio – che urla con accento laziale nel microfono mentre alacremente prende tutte cinghie e le gira nelle maniglie dei primi sacchi che il Manca avrebbe dovuto alzare con lo scavatore e mettere al centro della rete d’aggancio e trasporto. Le urla del giovane erano giustificate, in quanto l’elicottero non sembrava arrivare, quasi che, come Dick White in Apocalyse now, il nostro pilota si fosse divertito a volare basso sul golfo del Tigullio imbarbarito da un arrugginito libeccio, al suono della cavalcata delle valkirie, urlando agli innocenti: “Mi piace, l’odore del napalm al mattino!!” . Quando d’un tratto, da dietro il silenzio del crinale, contro il cielo plumbeo, lanciato sulla verticale, per evitare cavi aerei e la fiancata del monte, spunta il nostro mezzo che con una inclinazione laterale di massima gravità, inizia la curva di discesa, facendo sì che il lungo cavo del gancio entrasse in centrifuga e che quindi sarebbe stato difficile sapere dove avrebbe di nuovo preso la verticale. Per cui, tutti schiacciati ai lati del rumentaio, sin quando il nostro Dick, finalmente sulla verticale del piazzale aggancia, e fa per partire, ma si rende conto che non sta trasportando caramelle. E quindi, a questo punto l’elicottero deve procedere con il muso verso il basso per alzarsi e prendere volo tirando verso l’alto. Questa manovra, al contempo, fa strisciare a terra la rete con il sacco, eppoi, massimo di potenza e via con il sacco, che nuovamente entra in centrifuga e fa dondolare il nostro Dick, che con fatica cercò di stabilizzarsi via via scomparendo sull’ orizzonte. Ecco questo era il primo volo ed io cominciavo a soffrire di una nausea mortale. Ma decisi di rimanere li.
Con grande sorpresa di tutti il giovane addetto alla presa, aggancio e volo, che lavorava con noi, fu un ottimo coordinatore e dopo due o tre voli, il ritmo di carico prese il via, che entro le 12.30, quando per legge sei obbligato a chiudere, ne avevamo fatti volare 21 su 50. Ora, questo giovane laziale, alto e più che corpulento, direi massiccio e ben esercitato alla fatica, si muoveva con l’agilità di un gatto tra i nostri sacchi, dando ordini secchi al Manca, che per qualche mistero divino, obbediva senza l’usuale commento. Solo che, nel mentre che questo ragazzo, di cui non ricordo il nome, operava con maestria al contempo però riusciva a raccontarti tutta la sua vita nei dettagli. Tant’è che a mezzogiorno sapevo nome e cognome dei suoi parenti tutti, e appunto come questi lo avessero indirizzato a fare il pilota e quindi unirsi a queste ditte che fanno il servizio aereo. Ecco, una delle storie che mi raccontò mentre trottavo, con il vomito alle tonsille, a prendere cinghie, o a chiudere le reti ordinando i vertici dei quattro angoli del loro quadrato, fu inverosimile. Mentre, agganciava l’ennesimo sacco, mi disse con tutta ingenuità :”Sai perché mi piace volare ?” - ed io urlando per superarare il rumore del decollo: “Noooo!!” – “Ecco, quando ero bambino, fuori Roma, al fin di settimana vivevo da una zia che stava al piano ammezzato di una casa con giardino, e mi parlava sempre di volare !!”. Ecco pensai, un altro che comiciò a voler volare perché qualche parente amava i gabbiani. E aggiunsi: “ E allora !!” – “Allora – continuò lui ridendo beato – mi metteva fuori dal balcone e mi lasciava cadere nel prato su un materasso !! Era un bel volo, un bel metro e mezzo!!” Ecco, ma queste signore attempate non sono soggette a nessuna legge dello stato o cosa. Ma tutto ciò evitai di dirglelo poichè sembrava felice, meglio così. Io un pò meno, alla pausa pranzo, presi l’auto e non feci neppure due curve che dovetti fermarmi a lato e come si dice, tirare l’anima. Giornata chiusa per me. Vincenzo per fortuna mi sostituì e chiudemmo il cerchio al buio quella sera verso le 18.00. Quello che successe dall’altra parte del monte lo avremmo saputo solo il giorno dopo. Secondo il racconto di Gian, che a suo dire, come Simone del deserto sulla sommità della colonna dorica, parlò ai venti tutti, quando Dick arrivava in volata sulla valle, facendo un ampia curva ed entrando inclinato con il peso del sacco sulla linea più esterna di massima spinta centrifuga alla velocità di 120 km/h, a cinquanta metri sopra il tetto dell’Eremo, sarebbe dovuto essere guidato dall’operatore di terra. È qui dove Gian, fu preso dallo sconforto. Il giovane addetto, uno smilzo ragazzo indolente, probabilmente ligure, non rispondeva agli ordini di Gian: cioè mettere un sacco di un certo colore nelle fasce superiori e quelli d’altro colore a destra o sinistra di quelle inferiori. Quindi, il nostro Dick si muoveva verso valle o ancora a destra e a sinistra, perdendo tempo, nel tentativo di capire dove posizionare i sacchi, così facendo, si abbassava e si alzava dando fuoco alle pale e lanciando così tutto quello che vi era a terra in un volo pindarico, incluso appunto i vecchi sacchi vuoti che vennero scaravenati sul tetto dell’Eremo, o peggio ancora a valle sulla fonte, per poi ripartire a volte agganciando ringhiere o arbusti d’ogni sorta. Gian per una volta fu costretto a prendere quindi una decisione, ossia una responsabilità e dare ordine alle cose di cui solitamente avrebbe ignorato volentieri l’esistenza. Questo sforzo piscologico, e la fatica fisica di inseguire, come Peter Pan, i sacchi che volavano di quà e di là, lo portò allo stremo, talchè quella sera, di lui, non riuscimmo più ad avere notizie.
Eccettuata la prima e la seconda settimana di Febbraio del 2024, i monsoni caddero con una certa e preoccupante frequenza, che in questo mese alla fine, nonostante i nostri migliori sforzi, riuscimmo a lavorare, su ventotto, solo quattordici giorni. La Minerva, non era stata a casa a fare la calza o i pansotti, no !! Neppure s’era occupata del suo ben vasto terreno o delle fragole selvatiche, no! no! S’era rinchiusa di nuovo nella sua stanzina e con grande cura e zelo aveva preparato la sorpresa di carnevale!!. Eh sì!! Alla Minerva piacciono le feste, la gente, la comunanza!! Lei pensa, sogna e vede già la terra brulicare di genti indaffarate, sulle piane e sui colli, sferzate dal vento e dal sudore, che lei domina e osserva con soddisfazione dalle sue alture sul monte. Eccosì, per tenerci in allenamento organizzò un'altro bel corsetto propedeutico alla costruzione in muratura a secco per le giornate che vanno dal Venerdi 16 sino alla Domenica 18 di Febbraio 2024. E noi che a questo punto avevamo le piane coperte di sacchi che avremmo dovuto svuotare e sistemare, fummo presi dallo sconforto. Come al solito i tempi erano stretti, quindi bisognava trottare. Il giorno 12 di Febbraio 2024, dopo tutte le infinite discussioni sul dove e come dovesse essere concluso il muro due, terminammo quell’opera sotto il melo maledetto, lasciando uno scaleo cosi da poter eventualmente continuare o chiudere l’opera con un angolo. Ecco !! Adesso muro tre. E cosa ci aspettava? Avevamo solo quattro giorni per aprire e realizzare sia lo scavo che parte della fondazione sulla quale avremmo dovuto tenere il giorno16 di Febbraio 2024, il secondo corso.
Ma nel cominciare, verso monte, ogni nuovo muro ci si scontrava con il problema di dove scavare per l’acquidoccio. Ora, questo problema lo vedremo più avanti, ma fù per ogni muro un parto difficile. Lasciammo dunque fermo lo scavo del canale e cominciammo laddove il muro sarebbe diventato autonomo. Lo scavo durò due giorni, e come nel caso precedente gli asini vollero incomiciare a posare. Così fu che alla soglia del corso, gran parte della fondazione e un corso di pietre erano già state posate. Venne il 16 di Febbraio 2024. La sera della lezione teorica andò non diversamente da quella del corso precedente. Quindi con il gruppo ci trovammo alle 8.30 del mattino del 17 Febbraio 2024 davanti alla porta serrata dell’Eremo. Nell’attesa che tutti i neofiti salissero il monte e iniziando la chiacchera mattuttina incontrai un paio di corsisti - che come vederemo non mi lascieranno solo neppure per un attimo durante tutto il corso – tale Roberto, uno svizzero e tale Eva, una tedesca bavarese.
Verso le 9.00 finalmente sono tutti pronti: sei uomini e tre donne. Tutti in cerchio intorno a Vincenzo, che impartisce istruzioni e definisce i gruppi. A Vincenzo piace questa atmosfera da scout, che invece io tendo a tollerare poco, preferisco la definizione degli ordini in maniera sibillina con la frase finale che suona:“Sono stato chiaro ?” e la risposta corale:”Cristallino!!” con l’aggiunta:”Non vi sento!!” e il rinforzo:”Cristallino, signore!!”. Ma, purtroppo sono una minoranza. Questa volta s’era deciso di dividere in gruppi funzionali le squadre. La mia squadra era addetta a sciegliere, lavorare e portare le pietre al primo gruppo di posa.
Quando raggiungemmo il cantiere l’aria si era già fatta tiepida, il cielo era terso e senza vento, e solo nel fare la salita il nostro Roberto, un uomo non molto alto e ben nutrito, con un taglio di capelli da teddy-boy cioè con il ciuffo frontale ben arretrato lanciato sulla destra del capo, era già rubicondo e sudato, mentre le altre due donne che decisero di partecipare al mio gruppo sembravano in piena forma. Sino a quel momento non vi erano state domande, ma come vedremo sin già da mezza mattina le domande furono così tante e tali che non riuscii a rispondere pienamente a tutti. Specie quelle di questo Roberto, che con estatico entusiamo mi raccontava della sua carriera da architetto. Parlava perfettamente l’italiano, ma aveva un accento marcatamente ticinese, d’altronde aveva fatto il liceo a Mendriso – amena e sorda località posta poco oltre il confine che divide la provincia di Varese dalla Confederazione Elvetica - ossia tutte le nostre “s” , vuoi labiali o sibilanti, si trasformano sulle labbra di uno svizzero italiano in “z” dure. Per cui la frase, ad esempio, ”Sul sofà” si trasforma in ticinese con “in zu’l zofà”. Ossia, vi è una strana germanizzazione di alcune consonanti da rendere inudibili certe espressioni. Mentre Eva, tedesca di nascita, aveva un accento genovese ibridato nella costruzione germanica delle sue frasi italiane. L’ altra era italiana, una locale, dalla voce neutra e perciò non ebbi modo di notare sfumature di rilievo. Quindi, ci appolaiammo nello spazio angusto davanti allo scavo vicino a dove avevamo accatastato le pietre e comiciammo il lavoro. Presi dunque un pietra da più o meno 60 o 70 chili appoggiandola sulle gambe e cominciai a spiegare come si legge una pietra. Questa era una brutta pietra del Marchisio, un calcare misto, che andava lavorata. Presentava sulla longitudine una lunga vena di calcite che forse ci avrebbe permesso, con il tuono – ossia la mazza da 5 chili - di spaccarla ordinatamente in due. E Roberto, che vedevo impaziente, partì con una domanda dopo l’altra, era sudato come un cavallo, con le labbra umide e gli occhi chiari enormi spalancati e illuminati da strisce verde azzurro, come se stesse guardando il tesoro di Aladino, muovendosi intorno alla pietra, anziché muoverla lui stesso. “Ma che tipo di pietra è ?” fu la prima domanda, e senza sentire la risposta aggiunse:”Dunque il calcare si rompe sempre dove vi sono vene di calcite?” – “No” – risposi –“ ..aspetta che ti faccio vedere ..”. Ma lui, insistendo, vestito con una tuta da lavoro beige con larghe bretelle in cotone grezzo, nuova di pacca, scarpe da lavoro che non avevano mai visto polvere alcuna e gli occhiali da lavoro specchiati, calcati sui capelli oramai madidi di sudore sotto un berrettino da baseball per difendere la nascosta piazza che si allargava sull’occipitale della nuca, dal sole e dalla luce, animato da un’infantile furia di vedere come sarebbe finita la lavorazione della prima pietra, incedeva energicamente saltando sul posto in cui aveva deciso di mettersi, e cioè tra me e le giovani donne che da dietro lo guardavano incuriosite e preoccupate al contempo. Loro guardavano le mie mosse ed ascoltavano le risposte che davo, al contrario di Roberto, che si avvitava sempre più nello spasmo adolescienziale di sapere come si fa questo o quello, cantando ancora domande del tipo:”Allora, per questo tipo di pietra si usa lo scalpello a punta piatta ?” - “No” – dissi io – “Non adesso, bisogna prima aprirla, scoprire la vena e poi vai di scalpello o scapezzatore sul lato alto?” – “E cos’è …?”. Ed io a lui: “Appunto dammi il tempo di spiegare, con calma!!”. Avevo fatto l’errore di citare tutti gli utensili che adoperiamo spiegando anche che, per il lavoro che dovevamo fare al momento, certi non sarebbero stati necessari. E questo catalogo aveva fatto flippare la mente del mendrisotto, che accecato dalla tersa luce del mattino e dal suo oramai incontrollabile entusiasmo, pensava di risolvere il lavoro usandoli tutti in una sequenza non meglio ordinata di una cascata di ghiaia.”Ok!” – dissi a un certo punto – “Fermi tutti!! Spostatevi a lato e voltatevi, che qui volano schegge pericolose quando uso il tuono!!” . Presi dunque la pietra, appoggiandola su altre due per il lato più piccolo e con il tuono calai un colpo secco, dividendo così in due approsimativi parallelepipedi quella dannata pietra.
Al rumore morto della pietra ferita, il nostro mendrisiotto si voltò verso di me insieme alle giovani donne, e vedendo la pietra tagliata in due, come se fosse successo un miracolo, in tedesco, esclamò:”Die Hand des Teufels!!!” che tradotto nella lingua nazionale significa la “La mano del diavolo”. Ora, sapendo il tedesco, fui costretto a fermare il confederato che a questo punto aveva superato di molto i limiti della mia pazienza. Il modo in cui lo fermai non verrà descritto qui di seguito, poiché vorrei evitare di dar sfoggio della mia libreria di improperi, ma posso dire , senza tema di smentite, che per un po’ di tempo il nostro Roberto tornò nella calma.
Ora, con la pietra rotta alla quale bisognava ancora somministrare una ulteriore cura, però con altri mezzi e metodi, la disposi per la longitudine, piatta con la faccia interna rivolta verso l’alto, così che tutti potessero notare che ancora una piccola ma significativa faglia era da lavorare più finemente. E facendo così spiegai il come, il con che cosa, e specie il perché di una fatica aggiuntiva.
Finalmente, il confederato insieme alle giovani donne stettero in silenzio ad ascoltare. Decisi quindi di affidare il compito a Eva, una donna dalla corporatura sportiva e dal piglio intraprendente, mi pareva fosse adatta all’uopo. E lei prese in mano la mazza da un chilo e mezzo e la lama quasi che fosse un gesto naturale. Si mise curva dalla parte della pietra dove le avevo chiesto di picchiare, appoggiò la lama sulla faglia… ma quando si trattò di dare il colpo, la mazzetta cadde quasi a rallentatore sul becco dello scalpello e fece come il rumore del campenello rotto della bicicletta, senza che neanche un atomo della pietra avesse percepito l’urto, la lama rimase ferma davanti a quella ferita, e lei voltandosi verso di me, con le guance arrossate ed il volto coperto ai lati dai capelli rame mossi dal vento e con gli occhi azzurri strapazzati dallo sconforto, disse più volte:”Non posso !!! Non posso !!” – “Ma come!!?” – le risposi – “Dagli un colpo secco e vedrai che salta!! Dai, dai!!”. Ma nulla, questa donna dal fare agile e aggressiva verso il mondo, si comportava come una madre dolente davanti al figlio appena nato, quasi che, come nella storia di Abramo, le avessi ordinato di sacrificare la sua creatura. In un attimo capii però che ci doveva essere un qualche timore, che forse nulla aveva a che fare con queste mie metafisiche manfrine. Infatti, in tedesco mi rispose:”Ich könte meine Finger schlagen!!” che tradotto in maniera traslata vuol dire:”Ho paura di prendermi le dita!!”. Ecco, se ti dico di imbracciare la lama con la presa morbida a mezz’asta, quindi sotto di poco l’occhiello del becco dello scalpello, cosa vuol dire? Vuol dire forse impugnare lo scalpello come un pugnale per uccidere Cesare martoriandolo più volte, o vuol dire stai con la mano lieve così se ti scappa il colpo togli la mano in tempo? E tutto ciò, l’avevo spiegato prima. Così, per farle vedere la cosa feci saltare la piastra con un sol colpo e aggiunsi:”Adesso, fai l’altra e dai la pietra a chi posa!!”. A chi non è uso lavorare le pietre tutti i giorni, questo mio modo di fare potrebbe sembrare brusco e poco empatico, ma invece è solo il modo d’essere di chi ha visto esclusivamente pietre per un quindicennio, e che sa dove e come vanno combattute, perché di guerra si tratta, non è una gita al lago!! E poiché io non faccio distinzione di genere, credo che il metodo chiamato:”Guarda, impara e fai!!” in questo lavoro, lontano dalla civiltà, su monti ostili, con i venti arrugginiti del bello e del cattivo tempo e la fame che ti insegue, sia l’unico modo di sopravvivere, quindi lo comunico così a chiunque!! E questi neofiti appunto devono avere, anche se per poco tempo, l’impressione, che se dovessero mai, per puro caso, intraprendere questa professione, che essa somiglia a un romitaggio, il quale però nel nostro caso, al contrario di quest’ultimo, non termina con il ritorno al convento, ma bensi, con l’infinita andatura ferma, calma e dolorosa del passo che ti porta altrove, al prossimo muro. È con pensieri come questi che andai avanti a guidare la mia squadra sino alla pausa pranzo.
Questo era stato pensato ed organizzato dalla Matilda e dall’anglosassone in fuga, appunto Antony. La Matilda quel giorno di buon ora, con i capelli raccolti sulla nuca e con passo agile e fermo, segno di un pessimo umore, prese la via della brughiera che si estende sino ai crinali della località di Olmi, dal cui altipiano si vede il mare tutto oltre il golfo del Tigullio, e là raccolse una quantità di erbe dalle più diverse proprietà e sapori, per far ritorno all’Eremo nella tarda mattinata, sempre con le guancie infiammate ma finalmente con un lieve sorriso. Nel frattempo, il fuggiasco si era rintanato in cucina dove come un menestrello rinascimentale cantava le lodi di qualche mistura di spezie rumoreggiando con il pestello nell’enorme mortaio in cui creava le sue alchemiche ricette. Non sappiamo quale furono le decisioni, e come si svolsero i compromessi per decidere come fare un risotto, sappiamo solo che ebbe un successo straordinario. Insieme ad altre verdure, arrostite o marinate, il pranzo venne servito alle 12.30. Tra i commensali v’erano ospiti della cerchia di Raskolnikov che vociavano dalla parte opposta del tavolo, al centro l’agrimensore nella veste di Medardo allucinato e furente, mentre alla mia sinistra sedeva Roberto e alla destra un altro architetto tedesco tale Jan. L’incontro dei due teutonici a questa mensa fu per me il colpo fatale. Dunque si parlò tedesco!! E Roberto, scoperto che ebbe la professione del suo dirimpettaio, tra una porzione di risotto due piatti di verdure e l’altra, si infiammó mostrandoci il video del suo nuovo progetto di ristrutturazione di un edificio sfasciato che aveva comprato in qualche parte d’Italia, forse sulla Sila calabrese.
L’edifico che Roberto ci mostrò con entusiasmo, consisteva di un rudere in cui erano rimasti in piedi solo i vani del piano terra. Questi erano una serie di stanze ampie con il soffitto a botte in pietra, ognuno con una presa di luce in alto sull’arco chiuso da un muro anch’esso in pietra, cosi che la luce entrava a malapena, quasi dando l’impressione che non fosse in realtà una masseria, come lui la descriveva, bensì un ricovero per le bestie, in cui il posto per il cristiano era limitato al piccolo androne che dava dalla porta sulla nuda e desolata terra di un altipiano arido e senza vegetazione. Ossia, una costruzione semplice da banditi della Sila del Tirreno, che non si alzava sull’orizzonte proprio per evitare di essere notata, ma che al contrario potesse essere scambiata come un’antica rovina dove era chiaro che nessuno passava più lì i propri giorni. Cioè, questo non meglio identificabile gioiello rurale forgiato dall’abbandono, diventò elemento di disputa tra Guglielmo Tell e Bismarck. Il walser e il prussiano cominciarono quindi un dibattito su come rimettere in opera simile catastrofe. Partendo in tromba, l’uno, Roberto, già bel colorito dalle bevande, con la tesi della conservazione, e l’altro Jan il pallido, finalmente con un colore cristiano per la stessa ragione, con la tesi della funzione nuova dell’opera tutta. Lo scontro linguistico tra svizzero tedesco e hoch-deutsch, ossia il prussiano, prese una piega tale, che mentre i due si ingolfavano prima di vino rosso poi di bianco agguantando ogni tipo di cibo che venisse loro a tiro, diventò insostenibile. E per porre fine a questo delirio, nel quale facevo fatica a mettere a terra le loro idee urbane furiose, fui costretto ad urlare:”Fine pausa pranzo!! In cantiere dopo il caffè!!” E finalmente ci fu silenzio nella penombra sotto le polverose e buie arcate di pietra senza finestre della grande sala dell’Eremo.
Era Vincenzo che avrebbe dovuto annuciare il programma del pomeriggio, ma lui, che sedeva di fianco a Jan, era stato in silenzio a seguire una conversazione in lingue a lui sconosciute, e per sicurezza anziché avvicinare il cibo alla bocca con la forchetta, chinava il capo sopra la ciotola del cibo, quasi a difenderla da queste due idrovore teutoniche. Si voltò quindi verso la folla finalmente silente, dove il sottofondo della voce dell’agrimensore aveva fatto da colonna sonora sin a quel momento, con i canti delle sue omeriche imprese, e disse:”Oggi pomeriggio facciamo l’esperimento dei punciotti!!” Lo sguardo vitreo degli astanti, mostrò chiaramente che nessuno, tra questi viandanti urbani, aveva mai sentito parlare di oggetti siffatti o di una pratica con questo nome, e tale ignoranza si tramutò in una espressione di meraviglia espressa in un collettivo:”Ahhh!!”. Eppoi di nuovo, silenzio! Vincenzo è un uomo pratico, ti dice cosa ma non come, poichè lui lo sa il come, e ciò gli basta. Tutti dinuovo sul campo, in cerchio intorno ad una pietra da trecento chili spessa oltre trenta centimetri a cui avevamo fatto sei buchi profondi circa venti centimetri. Vincenzo, comincia a spiegare come si usano questi “punciotti” che sono delle lamelle di metallo duro, lunghe quindici centimetri e spesse circa cinque millimetri, terminanti verso l’alto con una curvatura. Per ogni buco se ne insericono due con le curvature in opposizione simmetrica tra loro verso l’esterno del buco stesso, e tra di esse si inserisce un cuneo che emerge, creando in questo modo una serie ordinata lungo una linea sulla qualle la roccia dovrebbe cedere e rompersi così da generare due pietre con un lato usabile per il paramento. Quand’ebbe finito di posare tutti i cunei nei punciotti prese la mazzetta da un chilo e cominciò. Ecco, l’operazione consite nel battere la pietra prima vicino ai punciotti poi subito dopo sul cuneo il quale entrato in risonanza per il primo colpo di lato quando viene percosso emette un suono così che quest’opera sembra diventare un componimento musicale. Eh si, Vincenzo, il nostro musico, con il battere ritmico della mazzetta si lasciò andare in un armoniosa serie di note discendenti che, dapprima naturali, suonavano così al primo giro: Si / Si / La / Sol / Sol/ Fa, ma che al secondo giro aumentando il ritmo della sequenza - essendo i cunei già affondati nei fori ed avendo generato una pressione sulla pietra cambiandone la tonalità - diventò: Si / La# / La / Sol# / Sol / Fa# cioè appunto un accordo cromatico discendente che ricordava l’assolo straziante di una doppia chitarra che chiude il famoso pezzo degli Eagles, Hotel California, e come in quella canzone, dove la batteria è la mazza e le chitarre i cunei che suonano in crescendo, nella quale le anime si ruppero tragicamente, egualmente con simile vemenza e angoscia la pietra si aprì perfettamente in due. In gloria all’esperimento riuscito, gli astanti si lasciarono andare in uno scrosciante battito di mani e, come al solito fuori dal coro, il mendrisiotto si gettò in un giubilo eccessivo facendo suoni simili a quelli montani dello jödel.
Questo fu l’ultimo coup de theatre del corso, dopodichè tutti tornarono alle loro postazioni. Cercai inutilmente di fare usare lo scapezzatore a Roberto e Jan, che nel frattempo avevano costituito con Eva la falange tedesca del cantiere, e ancor più difficile era spiegare che nel paramento non possono entrare pietre qualsiasi appoggiate con disillusione, l’una orfana di fianco all’altra, ma che invece bisogna cercare la pietra giusta che superi la frattura delle due pietre sottostanti, o appunto lavorarne una per raggiungere tal fine. Ma, per Roberto così per molti altri, nonostante i nostri sforzi esplicativi, il fatto di lavorare senza malta equivaleva ad accatastare dei sassi non meglio ordinati. Ossia alla fine, e solo alla fine, cioè il giorno dopo, fui in grado di forzare la falange tedesca alla lavorazione e posa ordinata delle pietre, e ciò credo che lo ricorderanno per qualche tempo.
Era il 18 di febbraio 2024 e, quella sera al buio, finalmente, avevamo finito tutti i nostri obblighi divulgativi e quindi potevamo, meteo permettendo, pianificare senza ulteriori interruzioni lo sviluppo dei lavori. Ma come andarono le cose, quali altre traversie e quali eventi ne fecero parte lo vedremo solo alla fine del secondo e ultimo capitolo di queste cronache, ossia al termine della lunga e faticosa storia dell’acquidoccio.
La faticosa e lunga storia dell’acquidoccio
Questa dell’acquidoccio e una storia lunga e faticosa che cominciò nel 2022 ed andò avanti, a fasi alterne, sino al Maggio del 2024 quando riuscimmo finalmente a chiudere i lavori. Ora mi sono giá dilungato nel narrarvi come si svolsero gli eventi in generale lungo il corso del 2023 e in parte del 2024, e quindi farò di questa lunga storia una versione breve.
La progettazione l’abbiamo raccontata nella prima parte, e come man mano che la Minerva ebbe le idee più chiare sul da farsi il disegno dell’acquidoccio prese forma diventando così pian piano una vera e propria opera di canalizzazione delle acque in eccedenza dei muri. Ma una cosa è stare a casa nelle giornate uggiose dell’inverno alla fioca luce della cucina e preso dall’ispirazione sulla carta con una matita disegnare la romantica discesa delle acque piovane in un canale che taglia la costa del monte per portarle dove vuoi tu, altro è però quando sei su quel monte e devi scavarne le fondazioni e costruirne le singole parti. Infatti sulla carta non hai una cosa fondamentale in mano: l’orografia e inoltre cosa ci sará mai sotto quella terra che vuoi amministrare a tuo beneficio. Questo dettaglio fece cambiare completamente la visione delle cose una volta che, con le mani sulla terra, fummo all’opera.
Questa era stata pensata come una versione in miniatura dei cosidetti gradoni leonardeschi. Ecco, fermi tutti!! Nessuno ha mai pensato di essere Leonardo !! No, no!! Piuttosto di usare le sue idee a nostro beneficio, questo sì!!.E la cosa fondamentale era: aver studiato Leonardo! E là, sul campo a perdita d’occhio, non vedevo alcun specialista del settore brillare, al contrario quando citai questa fonte gli schizzopatici con il volto stravolto da una smorfia di fastidio si voltarono in gruppo verso di me come se avessi parlato in una criptica lingua sconosciuta. Cioè quindi, bisognava fare la fatica di spiegare e far capire loro come mettere in pratica quello che Leonardo chiama l’andamento periodico di un acquidoccio. Questo voleva dire che i salti dell’acqua dovevano essere differenti tra loro in altezza, ma tale differenza avrebbe dovuto ripetersi, appunto in maniera periodica, lungo tutto il percorso del canale. Ossia bisognava creare una coppia di altezze e ripeterle nel ciclo costruttivo, cioè a dire se si comiciava con un altezza di venti centimetri seguita da una di quaranta, allora la terza cascata sarebbe dovuta essere anch’essa di venti centimetri, e così via. Questo è l’andamento periodico. In sé non è complesso, se hai pietre regolari o usi mattoni, ma se invece devi farlo a secco, ecco che allora le cose si complicano.
Ma andiamo con ordine. L’acquidoccio era un punto chiave per tutti i muri. Questi, sia verso monte che verso valle, dovevano partire dall’angolo che il canale faceva sui i loro paramenti. La pianificazione dello scavo, e la posa cominciarono il 7 di settembre del 2023 e terminarono il 6 di maggio 2024, cioè per nove mesi abbiamo dovuto verificare ogni centimetro di progressione del canale perché un errore di mezzo centimetro a monte voleva dire un scarto di venti centimetri sull’obbiettivo, che nel nostro caso non era ammissibile.
Sin dall’inizio abbiamo avuto un problema che rese il frasi dell’opera molto più complesso di quello che sarebbe potuto essere. Si, si!! Perché i muri si cominciano dal basso, cioè là dove l’acclivio termina nell’alveo della valle, mentre noi fummo costretti a comiciare dall’alto e ciò poiché, dei vecchi muri non v’era rimasto alcunchè e quindi avevamo solo i nudi e increspati dossi che scendevano il monte senza precise linee di taglio della sua sponda. Rossi gradoni di terra senza alcun ordine, i fantasmi appunto di quello che una volta era stato un terrazzamento, ossia lo scenario sul quale comiciammo a lavorare fu ciò che era rimasto di una antica frana registrata alla fine del 1864. E comiciare da li voleva dire, per l’acquidoccio, che ad ogni terrazza, saremmo stati costretti a scavare sotto l’ultimo piatto d’acqua posato in alto che stava in corrispondenza del paramento e dei canali che avremmo dovuto costruire alla base di ogni muro. E questo era solo uno dei problemi. In realtà era tutto l’andamento del canale che ci preoccupava. Così quel 7 di settembre del 2023, di buona mattina mi trovai in compagnia dell’agrimensore a fare lo scavo a monte della partenza dell’acquidoccio. Alla quinta picconata, con terra che veniva giù da ogni parte, ci fermammo. Sì, perché, non ero certo che quello dovesse essere il punto. Quindi di nuovo la mappa del geologo in mano, riguardammo l’alveo di massima precipitazione. Ehh!! Sì era proprio li, ma il suo orizzonte finale, se fossimo andati diritti, sulla linea della massima pendenza, lo scavo ci avrebbe portati diritti nel fianco della cisterna.
Ora questa cisterna, rifatta probabilmente nell’800 era quella usata una volta dal mulino. Ossia, l’acqua del rio, per quanto esiguo, raccolta in questo androne semicircolare che superava in altezza il primo piano dell’Eremo, era il cuore battente delle attività dell’Eremo. Con la caduta di quegli ettolitri d’acqua si muovevano le macine e le presse per fare il vino e l’olio. Non si sa quando questa cisterna andò in disuso, ma la Minerva aveva in mente di rimetterla in funzione, non perché alla Don Quichotte volesse dinuovo un mulino, ma per prendere tutta l’acqua superflua e mandarla agl’orti. L’impresa, di cui ignoriamo il nome, che nella fine del 19simo secolo fece l’opera, non fu granchè efficace. Infatti, la costruzione in pietra cemento, sopra l’antica botte scavata nel conglomerato, perdeva acqua da ogni parte e quindi o si rifaceva tutta la costruzione o al contrario si mettevano al suo interno un numero consitente di barili comunicanti così da gestire sia l’acqua entrante che il troppo pieno in uscita. Ecco le botti sarebbero state messe a un metro dalla cornice, sulla quale appunto mirava il nostro scavo guidato dalle parallele del geologo. Questa scoperta fu l’inizio del calvario.
Per essere sicuri, rifacemmo tutto il tracciato, vuoi con i tondini e la lenza che delimitavano lo scavo massimo, vuoi con quelli che definivano l’area interna del canale. E qui l’angoscia di essere costretti a fare una costruzione con debolezza strutturale divenne intensa. Tutti e quattro, prima a guardare dall’alto al basso poi viceversa dal basso all’alto. Avremmo potuto andare avanti un giorno, o un settimana intiera a guardare quell’orizzonte. Non sarebbe cambiato mai!! Il problema era il faraglione di puddinga verso monte!! Si, perché spostando di quasi quaranta centimetri verso monte l’obbiettivo, avremmo dovuto scavare per qualche bel metro il conglomerato che teneva su l’acclivio. Noi facciamo facciamo muri!!! Non siamo minatori !! Ma per evitare quella immane fatica, dal terzetto, che oramai stava appollaiato sul terrazzamento piú alto, come scimmie impaurite da un pitone, partirono le più improvvisate proposte che se Leon Battista Alberti fosse stato presente li avrebbe fatti appendere al castagno più alto. Per informazione, tale Alberti è uno dei più celebri architetti del quindicesimo secolo che si è occupato, appunto, di acque. Simbolicamente parlando, la trabeazione maggiore, uscì dalla bocca di Raskolnikov, che spalancando i suoi grandi occhi chiari dentro gli occhiali da vista, come dire che tutto fosse ovvio, berciò: “Andiamo dritto sino al terzo muro, eppoi, facciamo una bella curvetta evitando così la puddinga !!” Quel giorno c’era la forte brezza del genio, e Gianluca la colse tutta. Questa idea, che con poca severità si potrebbe definire un truismo apodittico, ossia una idea così lapalissiana da non poter essere neppure considerata, andava contro ogni legge dell’idraulica. Infatti, meno gomiti fai nel canale, più forte è il canale stesso. Questa è una nozione conosciuta anche dai daini che non si mettono a bere dove le rogge fanno la curva, ma dove è dritto e calmo. E ciò si spiega con una riga: il punto di torsione della superfice dell’acqua dove è costretta a fare una curva aumenta al massimo la sua forza centrifuga, lavorando quindi i punti apicali dell’arco della curva stessa, generando così in una sola area della curva una forza d’atrito che pian piano, o a volte d’un tratto, smonta tutta la muratura. Ottimo!!!
Dunque questa era la prospettiva: generare un andamento non rettilineo per tutta la lunghezza dell’acquidoccio così da evitare ogni fenomeno di erosione. Ma per far ciò era necessario cambiare l’angolo che il paramento faceva, ad ogni terrazza, sulla bocca dei salti, cioè a dire, la dove ogni singola parte del canale diventava piatta per attraversare la terrazza, bisogna tagliare la pietra a monte in un modo e quella a valle in modo simmetrico e contrario. Questo forse è più semplice da spiegare con un disegnino così da visualizzare l’immenso lavoro e le infinite ore di scapezzatore e scalpello che ci aspettavano. Ecco lo schizzo:
Come si vede, per realizzare un andamento curvilineo moderato, bisognava fare, per ogni parte della parete del canale – a monte e a valle - che si allaccia al paramento un angolo diverso, e ciò a mano, pietra per pietra, per far sì che, in questo modo, l’assetto canale-paramento fosse ordinata.
Era 10 Ottobre del 2023 quando arrivammo a queste conclusioni e bisognava andare celeri, perché per Dicembre di quell’anno avremmo dovuto consegnare il primo terzo dei lavori, cioè il primo muro comprensivo di acquidoccio e canalette e parte del secondo muro fornito almeno della traccia della parte successiva del canale. Quel giorno spirava una brezza intensa che veniva su dalla forra del mare, e tutti seduti in silenzio sparsi sul campo di battaglia, sotto un cielo e una luce autunale con il caldo che ancora insisteva a farci sudare come cavalli da tiro, fummo costretti ad accettare che il lavoro che avevamo pensato da quell’istante sarebbe diventato un altro. Il silenzio fu rotto dall’agrimensore, che stava in piedi lá sulla terrazza piú alta. Io lo guardavo dal basso e vidi che il solito sorriso sardonico del saraceno si stava accentuando, e ciò voleva dire che di li a poco avrebbe lanciato il suo verbo profetico. Quando infine ebbe il pieno sorriso della spia che vede il nemico fallire sotto i propri occhi proferì il verdetto:”Ehh vabbeh !! Vuol dire che gli angoli non saranno così precisi!! Non cambia nulla!!”. Il classico ragionamento alla Rustichello da Pisa. Stava lassù, appunto come Medardo sull’altare, fermo con le braccia allargate a croce come a dire che il destino si era abbattuto su di noi e che non v’era altro modo di uscirne se non quello di caricarne il peso sull’anima e specie sulle spalle e continuare. Ecco, quello fu un colpo finale per lo spirito della truppa - specie per chi come Vincenzo ed io, che avremmo di fatto costruito il canale al contrario di lui e Gian che avrebbero fatto i muri e le canalette – che mandò su tutte le furie me e Vincenzo. Così fui costretto a rispondere:”Cara testina di manzo, io sono andato in montagna a scavare e scegliere tonnellate di pietre regolari di cui volevo avessero almeno un angolo naturale a 90°, che adesso devo tagliare a manina in maniera diversa!! Ci ho rimesso anche la salute, somaro!!” Ma lui comiciò a scavare ridendo a squaciagola. Quindi ci mettemo a muovere terra per fare le fondazioni del primo muro e quelle dell’acquidoccio. Ci avremmo messo tre giorni di scavo prima di posare la prima pietra e avremmo finito di posare l’ultima pietra dell’inizio a monte dell’acquidoccio il 15 di novembre 2023.
Lo sforzo che ci richiese la costruzione del primo braccio dell’acquidoccio non fu solo fisica, ma principalmente mentale. Spiegare in uno scritto come questo, quanto la posa del letto e delle pareti di un aquidoccio sia complessa, è probabilmente impossibile, ma tenterò lo stesso con l’aiuto di alcune immagini, assummendomi il rischio di annoiarvi a morte. Per cui, chi non fosse interessato alla romantica meccanica, statica e idrodinamica di un canale in pietra a secco, salti pure questo capoverso e vada a leggersi gli atti finali dei lavori per sapere come finisce la storia.
Partiamo dalla definizione della curva ! Qui di seguito ci vedete all’opera, Gianluca, Vincenzo ed io mentre il Saraceno era alle prese con la macchina fotografica (tutte le foto usate qui sono sue).
Bisognava stabilire l’andamento del primo arco a partire da quello che avevamo deciso nella prima parte. E questo fu il problema. Perchè la prima parte ebbe un andamento di leggera curvatura che scendendo verso il basso avrebbe dovuto accentuarsi, tanto più ci saremmo avvicinati alla cisterna. Per questo siamo alle prese con la misurazione che determinò la seguente discussione, tra me e Vincenzo mentre il saraceno scattava foto a nastro.
Ora queste foto descrivono solo l’atmosfera della conversazione ma come ovvio non ne riproducono i dialoghi che come si vede, da questa succinta cernita, erano belli intensi. Specie i dubbi di Vincenzo, che era convinto che l’orizzonte che proponevo io fosse troppo distante dalla puddinga. In ogni caso avremmo dovuto spaccare la puddinga per costruirci sopra, ma volevo che questo lavoro da minatori fosse ridotto al minimo senza però mettere a repentaglio la stabilità del canale. Trovare una mediazione non fu facile. Come si vede dal beretto di Vincenzo è inverno e infatti siamo già la 10 di gennaio del 2024 quindi i tempi diventavano sempre più corti, ma io insistevo che le cose adassero fatte ragionando sulla morfologia dell’acclivio, guardando con cura quale traettorie seguire per questo dannato acquidoccio. E quindi con questa mediazione siamo arrivati a produrre il secondo salto così:
Ora questa foto ha delle note che servono a capire gli elementi strutturali del canale di cui poi, in breve, spiegheremo quí di seguito il metodo costruttivo.
Per capire come funziona l’acqua sui piatti e spiegare perché li abbiamo costruiti così ci vorrebbe un capitolo assestante che vi risparmio, cercando di sommarizzare tutta la questione in un semplice schizzo.
Ora costruendo così, si producono due effetti. Il primo, che vediamo qui nella visione frontale, mostra come l’acqua, incontrando una superficie che è leggermente inclinata verso monte, va a sbattere contro la parete interna della curva perdendo forza per rimbalzare sulla parte esterna, verso valle, avendo un effetto di attrito, dovuto alla centrifuga, molto diminuito. Il secondo, che vediamo nella vista in sezione, diminuisce la velocità del flusso di caduta facendo tornare l’acqua verso l’alto dell’accclivio, in questo modo costringendo i muri ad assorbirne il massimo volume possibile. Così facendo l’acqua si distribuisce nei muri delle fasce e solo l’eccedenza arriva a destinzione.
Ogni piatto d’acqua deve avere una sua fondazione e poggiare su un muro per fare il salto quindi, tanto meno salti si fanno tanto meno muro e fondazioni bisogna costruire, anche se i muri laterali rimangongono invarianti in altezza e lunghezza. Ma la cosa non è così semplice quando si lavora con pietre che hanno tutte quote diverse e bisogna realizzare dei piani che hanno le caratteristiche che abbiamo descritto sopra.
Per darvi un idea ricorrerò ancora alle foto. Ecco l’inizio della fondazione e lo sviluppo del muro di un piatto d’acqua.
E su questa fondazione ricomiciò la discussione dell’altezza del salto. Io ritenevo che fosse necessario salire almeno a quaranta centimetri, per rompere la caduta dell’acqua, Vincenzo invece riteneva che anche 25 cm fossero sufficienti per raggingere la quota della terrazza sulla quale avremmo dovuto riallaciarci al primo braccio facendo appunto il primo andamento curvilineo. E quindi la discussione andò avanti per un po’ come si vede in questi scatti: